Santi & Sposi

FEBBRAIO

Sommario

1 FEBBRAIO.. 5

San Sigiberto III il Giovane (Sigisberto) Re d’Austrasia. 5

Beati Martiri di Angers Martiri della Rivoluzione Francese. 6

Beate Maria Anna Vaillot e quarantasei compagne Martiri 7

2 FEBBRAIO.. 7

Santa Giovanna de Lestonnac. 7

Sant' Adalbaldo Martire (sposo di santa Rictrude e padre di 4 figli tutti venerati) 8

Beato Tshimangadzo Samuele Benedetto Daswa (Bakali) Martire. 9

3 FEBBRAIO.. 12

Sant'Anna Vedova e profetessa. 12

4 FEBBRAIO.. 12

Sant'Aventino di Troyes. 13

5 FEBBRAIO.. 14

Sant'Avito sposo, padre e Vescovo di Vienne. 14

Beata Elisabetta Canori Mora Sposa. 16

Beata Eulalia Pinos Vedova. 17

6 FEBBRAIO.. 17

Santi Martiri Giapponesi 18

Sant'Ina (Im, Ine) Re del Wessex. 20

Beata Ildegonda vedova e Monaca premostratense. 21

7 FEBBRAIO.. 21

San Riccardo Re degli Inglesi 22

Beata Anna Maria Adorni sposa, madre e Fondatrice. 23

Santa Giuliana Vedova. 24

8 FEBBRAIO.. 24

9 FEBBRAIO.. 25

Beato Luigi Magana Servin Laico e martire. 25

10 FEBBRAIO.. 25

Beata Chiara Agolanti da Rimini Clarissa. 26

Beata Louise Poirier épouse Barré e 5 compagni Martiri 27

11 FEBBRAIO.. 27

Sant' Elisa (Eloisa, lat. Helvisa) Reclusa. 27

12 FEBBRAIO.. 28

Santi Martiri di Abitina fra cui San Saturnino con i 4 figli 28

Beata Ombelina Badessa. 29

Beato Giacomo Fenn, sposo Sacerdote e martire. 30

13 FEBBRAIO.. 30

San Simeone Stefano Nemanja Re serbo. 30

Santa Giuliana Laica venerata a Torino. 32

14 FEBBRAIO.. 33

Beato Vincenzo Vilar David Padre di famiglia, martire. 33

San Valentino Martire. 34

15 FEBBRAIO.. 36

San Wilfrido (Walfredo) della Gherardesca Abate fondatore di Palazzolo. 36

16 FEBBRAIO.. 37

San Marciano Imperatore d’Oriente. 37

17 FEBBRAIO.. 38

San Pietro Yu Chong-nyul Padre di famiglia e Martire. 38

Beata Elisabetta Sanna Vedova, Terziaria francescana, membro dell’Un. dell’Apostolato Cattolico. 38

18 FEBBRAIO.. 43

Santi Massimo, Claudio, Prepedigna, Alessandro e Cuzia Martiri di Ostia. 43

Sant'Angilberto di Centula Abate di Saint-Riquier. 44

Santi Giovanni Pietro Neel, Martino Wu Xuesheng, Giovanni Zhang Tianshen e Giovanni Chen Xianheng Martiri 45

19 FEBBRAIO.. 47

Beato Corrado Confalonieri da Piacenza sposo, Eremita, Terziario francescano. 47

20 FEBBRAIO.. 50

21 FEBBRAIO.. 50

San Pipino il Vecchio (o di Landen) 50

Sant'Eleonora Regina d'Inghilterra. 52

22 FEBBRAIO.. 53

Santa Margherita da Cortona madre e Religiosa. 53

Beata Maria di Gesù (Emilia d’Oultremont d’Hooghvorst) madre e Fondatrice. 55

23 FEBBRAIO.. 56

Beata Raffaella Ybarra Sposa e madre Fondatrice. 56

24 FEBBRAIO.. 58

Sant'Etelberto Re del Kent 58

Beato Josef Mayr-Nusser Padre di famiglia, martire. 59

25 FEBBRAIO.. 65

Beato Sebastiano dell’Apparizione Francescano. 65

Beata Cecilia Domenicana. 66

26 FEBBRAIO.. 66

27 FEBBRAIO.. 66

Sant'Anna Line Martire. 66

28 FEBBRAIO.. 67

Beati Martiri di Unzen. 67

29 FEBBRAIO.. 67

Beata Antonia di Firenze madre, Badessa. 67

 

1 FEBBRAIO

San Sigiberto III il Giovane (Sigisberto) Re d’Austrasia

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92315/92315.JPGMetz (Austrasia), 630 – 1 febbraio 656

Figlio del re Merovingio Dagoberto, fu battezzato da Sant'Amando. Saggio governante, costruì diversi monasteri, diede generose elemosine alla Chiesa e ai poveri.

Martirologio Romano: A Metz in Austrasia, oggi in Francia, san Sigisberto III, re, che costruì i monasteri di Stavelot, Malmédy e molti altri e distribuì con generosità elemosine alle chiese e ai poveri.

Sigiberto nacque verso il 630 dal re dei Franchi Dagoberto I (600-639) e dalla regina Ragintrude. Per motivi politici del tempo, Dagoberto I diede al figlio, bimbo di quasi quattro anni, la corona del regno d’Austrasia nel 634 a Metz la capitale, affidandone la custodia e l’educazione al vescovo s. Cuniberto di Colonia Agrippina († 663 ca.) e al duca Adalgiso.

Qualche decennio prima nel 613, il regno dei Merovingi, dinastia dei Franchi Salii, aveva iniziato la sua decadenza con la suddivisione nei regni di Burgundia, Neustria, Aquitania, e Austrasia (parte orientale con capitale Metz), che spesso combatterono fra loro.

Ad undici anni nel 641, Sigiberto III prese parte ad una sfortunata guerra contro la Turingia (regione storica della Germania orientale); mentre dal 643 egli vide accrescere il potere del maestro di palazzo Grimoaldo, figlio del ‘maggiordomo’ Pipino I il Vecchio († 639) e gli si affezionò talmente che ne adottò il figlio; particolarità politiche del tempo, difficili a comprendersi con la mentalità odierna.

I “maggiordomi” presso i Merovingi, erano maestri di palazzo con funzioni di primo ministro; divenne una carica ereditaria nei regni di Austrasia e Neustria e nel secolo VIII riuscirono a sostituirsi nel governo agli stessi re, che presero la definizione di “rois fainéants” (re fannulloni).

Infatti nonostante che dal matrimonio di Sigiberto III con Inechilde, nascesse oltre la figlia Blethilde, anche il figlio Dagoberto II, nominato suo successore, il maggiordomo Grimoaldo, dopo la morte di Sigiberto, tentò di far salire al trono il proprio figlio.

Alla luce di questo contesto storico, poco si sa di Sigiberto III, che sempre più appariva come un re ombra, senza potere effettivo, ma dedito soprattutto ad opere di beneficenza e di pietà.

Da documenti pervenutaci, si apprende con certezza che fondò i monasteri di Cugnon, Stavelot-Malmédy, e S. Martino presso Metz; la tradizione vuole invece che sia fondatore di ben dodici monasteri.

Sotto il suo regno, il Cristianesimo si diffuse profondamente nell’Austrasia, protesse e favorì l’attività dei santi vescovi Amando e Remaclo; in una sua lettera scritta al vescovo di Cahors, Desiderio, Sigiberto diceva che la pace era stabile nel regno e che i suoi scopi erano una vita vissuta nella grazia di Dio, in pace con il suo popolo e la beatitudine.

Papa Martino I (649-655) gli chiese, tramite il vescovo s. Amando, il suo aiuto contro i “monoteliti” (seguaci di una teoria religiosa elaborata proprio nel VII secolo in seno alla Chiesa bizantina; essi riconoscevano le due nature di Cristo, ma affermavano che in lui la volontà divina predominava su quella umana).

Sigiberto III il Giovane, morì ad appena 26 anni, il 1° febbraio 656 a Metz e fu sepolto nel monastero di San Martino da lui fondato.

Il culto per il santo re sorse casualmente, quando nel 1063 le reliquie furono spostate nello stesso monastero, a causa del crollo della cripta; fu proclamato santo nel 1170, quando fu effettuata la cosiddetta “elevatio” delle reliquie, atto di proclamazione in uso nel passato prima del 1500.

Dopo le varie distruzioni del monastero, nel 1552 quella definitiva, le reliquie furono portate al convento di S. Giorgio a Nancy.

In seguito i duchi di Lorena, che si ritenevano successori del santo re, alimentarono il suo culto, nominandolo nel 1742 patrono del Ducato e le reliquie furono traslate nella cattedrale di Nancy, città di cui è tuttora il santo patrono.

Buona parte delle reliquie furono bruciate nel 1797 durante la Rivoluzione, quelle recuperate si trovano in varie città francesi; è invocato nella risoluzione dei problemi politici e dal 1663 anche contro il maltempo.

La sua festa si celebra il 1° febbraio, anche se nel tempo passato era ricordato a Metz, Strasburgo e St-Dié in altre date.

Autore: Antonio Borrelli

Beati Martiri di Angers Martiri della Rivoluzione Francese

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/91916/91916A.JPG Angers, Francia, † 30 ottobre 1793 – 16 aprile 1794

Si tratta di 99 martiri, vittime della Rivoluzione Francese dal 1793 al 1794, nella diocesi di Angers. Delle vittime in questa diocesi si conoscono almeno duemila nomi.

Nel 1791 fu richiesto il giuramento di fedeltà alla Costituzione Civile del Clero da parte degli ecclesiastici, alla quale non tutti aderirono, dando così la denominazione di “preti refrattari” a coloro che non aderivano, venendo anche perseguitati.

Dopodiché 1l 14 agosto 1792, la Convenzione Nazionale, richiese il giuramento “liberté - egalité” rendendolo obbligatorio per tutti i funzionari e poi il 2 settembre per tutti i cittadini francesi. Anche a questo nuovo giuramento non aderirono migliaia di persone, e fra loro molti sacerdoti e religiosi, magari sfuggiti alla persecuzione, dopo il rifiuto del precedente giuramento del clero.

Per il loro rifiuto, dal 30 ottobre 1793 al 14 ottobre 1794, furono ghigliottinati 177 vittime ad Angers, sulla piazza detta “du Ralliement” (=adesione dei cattolici alla Terza Repubblica). Mentre dal gennaio 1794 al 16 aprile 1794, circa 2.000 persone vennero fucilate al Campo dei Martiri d’Avraillé.

S’ignora dove furono sepolte tutte queste persone; successivamente si scoprirono delle fosse comuni, ma i resti ritrovati per le loro condizioni, non furono mai identificati. Gli studiosi in seguito esaminando i documenti ed i verbali degli interrogatori, conservati nell’archivio dipartimentale di Maine-et-Loire, poterono evidenziare per 99 persone, la motivazione religiosa della condanna da parte dei persecutori e la loro accettazione.

Tra di essi vi furono dodici preti del clero di Angers, che furono ghigliottinati, il primo della lista è padre Guglielmo Repin che era il più anziano con i suoi 85 anni; il gruppo comprende tre suore di cui due Figlie della Carità e 84 laici di cui ben 80 donne, in età compresa fra i 40 e 62 anni.

Quello che meraviglia e che tutte queste donne non costituivano certamente un pericolo per il nuovo governo; fra esse erano rappresentati tutti gli ambienti sociali; artigiani, operaie, contadine, negozianti, una educatrice, una donna chirurgo, tre nobildonne, dieci damigelle nobili, sei donne ‘borghesi’.

Comunque di tutti i 99, senza alcuna eccezione, si ha la prova che si opposero perché il nuovo potere rivoluzionario, voleva imporre con la forza un nuovo clero, incline alle loro direttive e non più ubbidiente alla Chiesa di Roma, instaurando così una religione scismatica, in lotta con il Dio della Redenzione, in nome della dea Ragione.

I 99 martiri furono identificati come tali, da una speciale Commissione, nominata nel 1905 dal vescovo di Angers Joseph Rumeau, per cui nel 1910 venne aperto il processo informativo, il quale fu sospeso a causa della guerra nel 1915 e ripreso poi nel 1918 e concluso nel 1919; trasmesso a Roma, terminò nel 1983 con il decreto sul martirio.

La loro solenne beatificazione è avvenuta il 19 febbraio 1984 con papa Giovanni Paolo II; per la maggior parte di essi la ricorrenza religiosa è al 1° febbraio, mentre per i 12 sacerdoti e le tre suore, oltre la festa comune del 1° febbraio, essi sono ricordati anche singolarmente, nel giorno della loro esecuzione.

Non potendo riportare tutti i 99 nomi, citiamo solo i martiri ghigliottinati, cioè i sacerdoti e le suore.

Laurent Batard, François-Louis Chartier, André Fardeau, Jacques Laigneau de Langellerie, Juan-Michel Langevin, Jacques Ledoyen, Jean-Baptiste Lego, René Lego, Joseph Moreau, François Peltier, Guillaume Repin, Pierre Tessier, Marie de la Dive, Rosalie du Verdier de la Sorinière, Renée-Marie Feillatreau.

Autore: Antonio Borrelli

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/39330/39330C.JPGBeate Maria Anna Vaillot e quarantasei compagne Martiri

 + Avrillé, Francia, 1 febbraio 1794

Marie-Anne Vaillot ed Odile Baumgarrten, religiose Figlie della Carità, nonché altre 45 donne laiche della diocesi di Angres, nubili, coniugate e vedove, conseguirono la palma del martirio durante la Rivoluzione Francese. Il 19 febbraio 1984 Papa Giovanni Paolo II beatificò queste donne insieme con altri martiri della diocesi di Angers.

Martirologio Romano: Ad Avrillé presso Angers in Francia, passione delle beate Maria Vaillot e quarantasei compagne, martiri, che, nell’epoca del terrore durante la rivoluzione francese, conseguirono la corona del martirio.

 

2 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/39410/39410.JPGSanta Giovanna de Lestonnac

Bordeaux, 27 dicembre 1556 - 2 febbraio 1640

Nasce a Bordeaux il 27 dicembre 1556. La bambina viene battezzata da un sacerdote cattolico con il nome della madre, Giovanna, che è calvinista e affida la sua educazione a precettori calvinisti. Nel 1573 sposa Gastone de Montferrand, da cui ha sette figli. Vedova dal 1597, dopo 24 anni di matrimonio, entra nel 1603 a Tolosa presso le «Feuillantines», le «Fogliantine», senza potervi rimanere per motivi di salute. Nel 1605, a Bordeaux si presta come volontaria durante un'epidemia di peste. Nello stesso anno, consigliata dal de Bordes, gesuita, progetta di fondare l'Ordine di Nostra Signora per l'educazione delle fanciulle. L'istituto viene approvato a Bordeaux dal cardinale de Sourdis il 25 marzo 1606 e poi a Roma, il 7 aprile 1607 da Paolo V. Così il 1 maggio 1608 Giovanna e le sue prime compagne rivestono l'abito religioso e cominciano a praticare la loro Regola che si ispira a quella di sant'Ignazio. Pronuncerà i suoi voti solenni l'8 dicembre 1610. Muore il 2 febbraio 1640 quando l'Ordine conta già trenta case. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Bordeaux in Francia, santa Giovanna de Lestonnac, che, fanciulla, respinse gli inviti e i tentativi della madre ad allontanarsi dalla Chiesa cattolica e dopo la morte del coniuge provvide sapientemente all’educazione dei suoi cinque figli, fondando poi la Compagnia delle Figlie di Nostra Signora, sul modello della Compagnia di Gesù, per promuovere la formazione cristiana della gioventù femminile.

Suo padre è cattolico e sua madre è diventata calvinista, al tempo delle sanguinose guerre di religione in Francia. Sostenitore del partito cattolico è anche un suo zio materno, Michel de Montaigne, uno dei più illustri pensatori di Francia. I contrasti sulla fede, che stanno agitando tutto il Paese, sono assai vivaci anche in casa Lestonnac, rendendo difficile la convivenza e contrastate le decisioni. La bambina viene battezzata da un sacerdote cattolico con il nome della madre, Giovanna: ed è lei che affida la sua educazione a precettori calvinisti.

Più tardi, nell’adolescenza, Giovanna si avvicina invece ai Gesuiti, un Ordine religioso nuovo, arrivato da poco a Bordeaux (sono nati a Parigi nel 1534 e vengono approvati a Roma nel 1540). Pare a un certo punto che voglia farsi monaca. Poi obbedisce al padre, che le dà per marito il nobile Gastone di Montferrand.

È un’unione molto solida, anche se combinata. Nascono sette figli (tre moriranno nei primi anni), ma poi Gastone muore nel 1597, dopo 24 anni di matrimonio. Giovanna si occupa dei quattro figli per il tempo necessario a sistemarli, e poi ritorna sulla sua vecchia idea di farsi monaca, ma non tanto contemplativa. Monaca di lotta e di preghiera, piuttosto. Sicché diventa “Fogliantina”. Questo è il nome di religiose nuove, appartenenti al ramo femminile dei Cistercensi riformati, nati nell’abbazia di Feuillant, in Guascogna, per reagire alla decadenza dello storico Ordine, dovuta all’infiacchimento dei costumi e al conflitto religioso.

Creato nel 1575, l’Ordine ha poi dato vita nel1588 al ramo femminile, detto appunto delle “Fogliantine”, che fanno rivivere l’austerità dei primi tempi. Ed è questo che attira Giovanna verso il loro noviziato in Tolosa. Ma non ce la fa: ha già 47 anni, il suo fisico è scosso dalla dura disciplina; dopo sei mesi crolla e deve tornare a casa. In Bordeaux, nel 1605, la troviamo volontaria durante un’epidemia di peste, lavorando tra i malati con altre donne e ragazze. E qui scopre finalmente la sua strada: non l’isolamento del monastero, ma il lavoro in città, tra le ragazze più bisognose di aiuto e di istruzione. Per questi scopi, sul modello dei Gesuiti, fonda la “Compagnia di Nostra Signora”, incoraggiata dall’arcivescovo bordolese François d’Escoubleau del Sourdis, e ne diventa la volitiva superiora. Anche troppo volitiva, per alcune; tant’è che nel 1622 le tolgono la cariche lei se ne va da Bordeaux.

Ma sei anni dopo la richiamano alla guida della comunità. Intanto, da molte parti si invitano le “Fogliantine” a fondare scuole. Alla sua morte, l’Ordine ha già trenta case in Francia. Pio XII la proclamerà santa nel 1949.

Autore: Domenico Agasso     Fonte: Famiglia Cristiana

             

Sant' Adalbaldo Martire (sposo di santa Rictrude e padre di 4 figli tutti venerati)

+ 650

Le notizie sulla sua vita sono ricavate da una Vita Rictrudis, scritta da Ubaldo di St. Amand. Signore di Ostrevant. Forse duca di Douai, dignitario della corte di Da goberto I e di Clodoveo II, nipote per parte di madre di s. Gertrude, fondatrice del monastero di Hamage, presso Marchiennes, durante una spedizione militare in Guascogna Adalbaldo sposò S. Rictrude, figlia di Ernoldo, signore di Tolosa, malgrado la violenta opposizione dei genitori di lei. Da questo matrimonio ebbe quattro figli, venerati anch'essi nella Chiesa: s. Mauronte, la b. Clotsinda, s. Eusebia e la b. Adalsinda. Venne assassinato nei pressi di Périgueux durante una successiva spedizione in Aquitania (650), forse ad opera di sicari del suocero, offeso dal fatto che la figlia avesse sposato un nemico della sua gente.

Fu sepolto nel monastero di Elnon (St. Amand-lcs-Eaux). Sulla sua tomba avvennero alcuni miracoli ed il popolo incominciò a venerarlo come santo, attribuendogli anche il titolo di martire, poiché la sua morte era avvenuta in una regione ancora in gran parte pagana. Parte delle sue reli quie furono trasportate a Douai ed il suo culto si diffuse in Belgio ed anche in altre regioni. La sua festa è celebrata il 2 febb., forse anniversario del suo dies natalis o della traslazione delle reli quie, mentre nelle diocesi della Fiandra venne spo stata al 4 febb., per non farla coincidere con la festa della Purificazione della Vergine. Il suo nome, però, non è attualmente ricordato nei calendari liturgici di Cambrai e di Lille.

Autore: René Wasselvnck       Fonte: Enciclopedia dei Santi    

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/95656/95656A.JPGBeato Tshimangadzo Samuele Benedetto Daswa (Bakali) Martire

 Mbahe, Sud Africa, 16 giugno 1946 - 2 febbraio 1990

Padre di famiglia, insegnante, educatore e catechista, ucciso il 2 febbraio del 1990, primo martire sudafricano. Con il suo stile di vita e il suo coraggio ha messo in crisi il sistema di credenze della società tradizionale. Un esempio per l’intera società sudafricana.

Sposo e padre di otto figli, Tshimangadzo Benedict Daswa è il primo martire della fede sudafricano. È stato proclamato beato domenica 13 settembre 2015. Oltre 30mila persone hanno partecipato alla celebrazione eucaristica svoltasi all’aperto a Tshitanini, villaggio nella provincia settentrionale di Limpopo, a pochi chilometri di distanza dal luogo dove Daswa fu ucciso, il 2 febbraio 1990.

«Uomo di famiglia, catechista diligente, educatore premuroso, ha dato testimonianza eroica del vangelo fino all’effusione del sangue: d’ora in avanti sarà chiamato beato», ha solennemente dichiarato il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi e inviato di papa Francesco, che ha presieduto l’eucaristia insieme a vescovi e sacerdoti sudafricani e tanti altri venuti da nazioni limitrofe. Presenti alla celebrazione erano i figli di Daswa, l’ultranovantenne madre e numerose autorità civili locali e nazionali.

In uno stato laico come il Sudafrica, dove c’è libertà di religione e circa l’80% della popolazione si dice cristiana, risulta difficile credere che una persona sia stata uccisa a motivo della sua fede in Gesù. Ma è stata l’incompatibilità con alcune credenze della religione tradizionale africana, più fortemente radicata nelle zone rurali del Sudafrica, che ha portato Benedict Daswa a scontrarsi con le autorità tradizionali.  In particolare, con la loro visione della realtà secondo cui i disastri atmosferici così come le malattie o la morte sono da attribuire sempre alla presenza di spiriti maligni manovrati da esseri umani e mai riconducibili a cause naturali.

Torniamo sul tragico epilogo della vita del primo martire sudafricano. Gennaio 1990: un nubifragio si abbatte sul villaggio dove Benedict abita con la famiglia, e alcune capanne, colpite da fulmini, vanno in fiamme. La gente è spaventata. Il capo-villaggio e i suoi consiglieri decidono di dare la caccia al “colpevole” di tali straordinari fenomeni atmosferici. Scelgono di autotassarsi per pagare lo “stregone” incaricato di identificare il responsabile del sortilegio.

Benedict, che è segretario del consiglio del capo-villaggio, rifiuta di sborsare la somma richiesta, l’equivalente di 50 centesimi di euro. Tenta di spiegare al capo-villaggio e ai suoi consiglieri che fulmini e nubifragi sono fenomeni naturali e che cercare dei colpevoli avrebbe portato sicuramente alla uccisione di persone innocenti. E dichiara che a motivo della sua fede in Gesù non può accettare tale decisione.

2 febbraio. È sera e Benedict, alla guida del suo furgoncino, sta rientrando a casa. A un certo punto è costretto a fermarsi e a uscire dal veicolo per liberare la strada bloccata da rami e grosse pietre. È allora che scatta la trappola: dai cespugli spunta fuori un gruppo di giovani armati che lo colpiscono con bastoni e sassi.

Sanguinante, tenta di salvarsi, rifugiandosi in una capanna poco distante da dove però la padrona lo costringe ad allontanarsi subito perché assalitori minacciano di dare fuoco alla casa. Incapace di difendersi, si consegna ai suoi assassini che lo finiscono a colpi di bastone.

Questo il prezzo pagato da Benedict per la convinta adesione alla fede cristiana. La sua colpa? Aver messo in crisi un sistema di credenze e aver tentato di minare i fondamenti su cui si regge la tradizionale struttura sociale e religiosa.

In controtendenza

Ma l’intera vita del beato Daswa è stata in controtendenza, anche nei confronti della mentalità patriarcale, e di critica nei riguardi delle superstizioni religiose.

Nato il 16 giugno 1946 nel villaggio rurale di Mbahe da una famiglia non cristiana dell’etnia venda e appartenente al clan dei lemba, chiamati “ebrei neri” per via di rituali e tradizioni con antichi legami col giudaismo, a 17 anni si converte al cattolicesimo e sceglie Benedict come nome di battesimo.

Per finanziarsi gli studi al college e divenire insegnante, fa le pulizie in un ospedale. Venuto al corrente della sua conversione, il direttore del centro sanitario intima di abbandonare la fede cristiana pena la perdita del posto di lavoro. Benedict non ha dubbi: accetta di essere licenziato piuttosto che rinunciare alla fede in Gesù.

Diventato insegnante, è prima maestro elementare e poi direttore della scuola primaria nel villaggio di Nweli. Ama coltivare la terra e rifornisce di frutta e verdura la gente del villaggio e dà gratuitamente i prodotti del campo a coloro che sono troppo poveri per pagarli. Appassionato di sport, organizza e allena una squadra di calcio.

Nel villaggio e conosciuto come assiduo lavoratore e persona molto concreta ed efficiente. Con il lavoro delle sue mani, partecipa alla costruzione della scuola locale e acquista un furgoncino per poter trasportare dal fiume ghiaia e sassi con cui costruire la chiesa, per la comunità cattolica. Si impegna attivamente in parrocchia, anima le celebrazioni liturgiche e insegna catechismo.

A 30 anni si sposa con Shadi Eveline Monyai (deceduta alcuni anni fa) dalla quale ha otto figli. Aiuta la moglie nelle faccende domestiche, compito esclusivamente femminile nella tradizione venda.

Il figlio Lufunwo Daswa, che sta completando gli studi universitari per diventare insegnante, conserva di lui la memoria di un padre coscienzioso e pronto ad aiutare gli altri: «Avevo solo 14 anni quando fu ucciso. Era un uomo lungimirante. Voleva che ciascuno di noi figli avesse la possibilità di studiare e si dava da fare affinché tutti i bambini del villaggio potessero frequentare la scuola. In casa era sempre disponibile ad aiutare. Il sabato mattino spesso usciva, fuori per andare a fare legna nella savana e portarla alla mamma. E non era raro vederlo andare al fiume per lavare la biancheria sporca».

Chris Mphaphuli, amico di famiglia, ricorda: «Ciò che faceva in casa era qualcosa che non vedevi fare da altri mariti qui nella nostra zona. Agli uomini, secondo il costume locale, sono riservate certe mansioni e alle donne altre. Ma per Benedict questa distinzione non esisteva. Il suo era un comportamento tanto inusuale Che certuni arrivarono a dire che era “stregato”».

Eroe del vangelo

Di animo generoso, non intendeva conformarsi a tradizioni che gli impedivano di essere di aiuto ad altri, e tantomeno era disposto a cedere a credenze superstiziose. E così, per esempio, si rifiutò di fare indossare ai giocatori della sua squadra di calcio degli amuleti che “assicuravano” la vittoria.

Questo suo modo di vivere gli procurò numerosi nemici che lo condannavano per aver voltato le spalle alla tradizione dei venda e aver abbracciato la mentalità occidentale, in particolare la Fede cristiana. Sono molti però nella comunità locale ad averlo sempre stimato e che sono rimasti traumatizzati dall’efferatezza della sua uccisione.

La celebrazione della beatificazione di Benedict e stata un’opportunità per far conoscere a un pubblico più vasto e alla Chiesa universale il messaggio e la testimonianza di fede del primo martire sudafricano. Lo ha evidenziato il cardinale Angelo Amato nell’omelia: «La beatificazione di Benedict è una benedizione per tutta la Chiesa, per il Sudafrica, per l’Africa. II suo nome Tshimangadzo significa “miracolo” ed egli fu un’autentica meraviglia di Dio. Lo Spirito Santo ha trasformato questo giovane sudafricano in autentico eroe del vangelo. E’ simile ai primi martiri della Chiesa che difesero coraggiosamente la fede, pregando e perdonando i loro nemici».

Monsignor Rodrigues, vescovo della diocesi di Tzaneen, dove Daswa è nato e vissuto, che ha portato a termine la causa di beatificazione iniziata dal suo predecessore, il vescovo emerito Hugh Slattery, commenta: «Benedict visse nello spirito di libertà fondato sulla libertà di Gesù Cristo. La fede in lui lo ha liberato dalla paura della stregoneria, degli spiriti maligni e delle forze oscure. In verità la vita e la morte sua testimoniano che stregoneria e ogni forma di divinazione non hanno senso e sono un peso che rende schiavo Io spirito umano condizionato spesso da paura e ignoranza».

Padre Smilo Mngadi, portavoce della Conferenza episcopale sudafricana, sottolinea il significato della coincidenza di una data storica del Sudafrica: «Il 2 febbraio 1990, a Città del Capo, nell’estremo sud dell’Africa, il presidente de Klerk annunciava la liberazione di Nelson Mandela e dava inizio al nuovo corso della nostra nazione. Nello stesso giorno, nel punto più a nord del nostro paese nei pressi di Thohoyandou, in Limpopo, Benedict Daswa donava la propria vita per liberarci dall’oppressione della stregoneria; causa di guai per la nostra società e il mondo. Egli è un modello di vita per noi che accogliamo per dire insieme a lui: no alla stregoneria, si a Gesù Cristo».

Un santuario

La cerimonia del 13 settembre nello sperduto villaggio di Tshitanini è stata significativa non solo per la Chiesa ma anche per la società sudafricana. Lo ha spiegato in maniera chiara il vicepresidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, anch'egli di etnia venda, rappresentante del governo alla celebrazione. «Il suo coraggioso servizio gli è costato la vita. Possa quest’oggi essere il giorno in cui noi sudafricani ci impegniamo a costruire una società libera da intolleranza, ignoranza e violenza». Nel suo intervento si è espresso contro la pratica della stregoneria, esortando i concittadini a dire no a questa usanza e no a uccisioni rituali e mutilazioni per ottenere salute, soldi e successo. E ha incoraggiato «un dialogo aperto per capire il perché continuano ad esserci uccisioni rituali».

Alle parole del vicepresidente Ramaphosa ha fatto eco Fikile- Ntsikelelo Moya, direttore del quotidiano di Durban ‘The Mercury’: «Al di là del fatto che sia santo o meno, Daswa è un esempio da seguire anche per la società secolare. Egli è un uomo che ha avuto il coraggio delle proprie convinzioni ed e andato incontro a una morte atroce perché si è rifiutato di adeguarsi alla mentalità corrente della società dove il “fan tutti così” non si discute, è un dogma. Tutto ciò ha fatto di lui una persona eccezionale e un modello da seguire per il nostro paese e per il mondo dove molte persone pensano di essere troppo piccole e le nostre azioni troppo insignificanti per avere peso. Tanti, troppi di noi si sono rassegnati all’idea di non avere altra alternativa se non quella di adeguarsi passivamente a ciò che si vede di sbagliato attorno a noi».

La venerazione del nuovo martire è motivo di ispirazione per tanti e darà coraggio alla sparuta minoranza cattolica nella diocesi di Tzaneen che conta soltanto 45mila fedeli su una popolazione di 2,7 milioni di abitanti. «E’ nostra speranza - affermano i vescovi sudafricani in un comunicato - che la beatificazione di Daswa possa contribuire alla rivitalizzazione della fede della gente, affinché si senta incoraggiata a mantenersi salda nella fede di fronte alle difficoltà che deve affrontare nella vita di tutti i giorni».

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/95656/95656.JPGIl 24 agosto scorso, il corpo di Benedict è stato riesumato dal cimitero di Mbahe. Il villaggio dove era nato, per riposare nella chiesetta di Santa Maria Assunta che egli stesso aveva contribuito a costruire a Nweli. In futuro i resti mortali verranno traslati in un santuario che la diocesi di Tzaneen intende erigere. Diventerà un luogo di preghiera e di venerazione dedicate al primo martire cristiano sudafricano. La sua memoria verrà celebrata ogni anno il 1° febbraio.

Autore: Winnie Graham

 

BEATO BENEDICT DASWA, IL PADRE DI OTTO FIGLI, MORTO MARTIRE

La cerimonia di beatificazione si è svolta il 13 Settembre 2015 in Sudafrica, a Tohoyandou, presieduta dal cardinale Angelo Amato

Chi è Benedict Daswa, il Servo di Dio beatificato in Sudafrica ricordato dal Papa durante l'Angelus? Benedict Samuel Tshimangadzo Daswa era anzitutto il "padre amorevole" di otto figli, poi un maestro, un catechista, un grande testimone di fede, un uomo di dedizione e integrità, morto da martire il 2 febbraio 1990 a Tzaneen, Limpopo, la provincia più settentrionale del Sud Africa.

A Tohoyandou, invece, è stato beatificato con una grande cerimonia presieduta dal card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, che ha visto la partecipazione di centinaia di fedeli, a dimostrazione della forte testimonianza che questo semplice ma straordinario uomo ha lasciato nel cuore della gente africana.

Benedict Daswa è nato, il 16 giugno 1946, in Mbahe, un povero villaggio Venda vicino Thohoyandou nella diocesi di Tzaneen, da genitori appartenenti alla tribù chiamata Lemba. Sperimentò durante la sua gioventù la dolorosa perdita del padre e la pressione di dover rappresentare una figura di riferimento per i fratelli e le sorelle più giovani. Attraverso il contatto con degli amici cattolici, durante l'adolescenza si convertì al cattolicesimo e nel 1963, a 17 anni, chiese il battesimo scegliendo il nome di Benedict. Poco dopo lo seguì anche sua madre.

La sua fede lo portò a servire la Chiesa in molti modi: come assistente di sacerdoti, catechista di giovani, aiutante nella costruzione di chiese. Fu anche preside della scuola locale e ricoprì diversi altri incarichi di rilievo nella comunità, come ad esempio quello di guida ed animatore dei giovani durante i week-end e le vacanze, dotando il villaggio di un campo sportivo ed allenando i ragazzi della squadra di calcio. Era ampiamente rispettato e molto influente nella comunità locale.

Il 25 gennaio 1990, dopo un forte temporale, cumuli di paglia nel villaggio presero fuoco; il capo propose quindi di consultare uno sciamano per individuare lo spirito maligno responsabile dei roghi. Si concordò un contributo di 5 rand a persona per pagare lo stregone.

Benedict arrivò tardi, dopo che questa decisione era già stata presa. Nonostante ciò vi si oppose con vigore. Anche perché spiegò che la causa dei roghi era semplicemente la conseguenza di un fenomeno naturale come un fulmine. Si rifiutò quindi di pagare il contributo, affermando che la sua fede cattolica gli impediva di prendere parte a qualsiasi cosa avesse a che fare con la stregoneria.

Una posizione coraggiosa che strideva con la decisione del Consiglio locale. La comunità lo rimproverò dicendo che il suo comportamento sminuiva le credenze tradizionali. Daswa venne visto quindi come una pietra d'inciampo; cospirarono allora per sbarazzarsi di lui.

Il 2 febbraio 1990, venne perciò assalito dalla folla, lapidato e picchiato a morte. Quando vide un uomo venire verso di lui con un knobkerrie (un bastone tradizionale con una grande palla all'estremità ndr), si inginocchiò e pregò: "Dio, nelle tue mani consegno il mio spirito". Subito dopo gli venne inferto un colpo letale che schiacciò il suo cranio. Sulla sua testa gli venne versata poi dell'acqua bollente. Alla sua morte lasciò la moglie Evelyn, incinta dell'ottavo bambino, che partorì quattro mesi dopo, altri sette figli, sua madre Ida, tre fratelli e una sorella. 

Il processo per la causa di beatificazione fu aperto nel 2000, postulatore era mons. Hugh Slattery, vescovo emerito di Tzaneen. Il 22 gennaio 2015, poi, Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare il decreto che ne riconosce il martirio.

http://www.zenit.org/it/articles/mio-padre-benedict-daswa-un-santo-gia-in-famiglia

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92636/92636A.JPG3 FEBBRAIO

Sant'Anna Vedova e profetessa

Gerusalemme, I secolo

“C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”. (Lc 2,36-38)

Patronato: Vedove, Vergini, Monache

Etimologia: Anna = grazia, la benefica, dall'ebraico

Emblema: Pergamena

Martirologio Romano: A Gerusalemme, commemorazione dei santi Simeone e Anna, il primo anziano giusto e pio, l’altra vedova e profetessa: quando Gesù bambino fu portato al tempio per essere presentato secondo la consuetudine della legge, essi lo salutarono come Messia e Salvatore, beata speranza e redenzione d’Israele.

Nelle Chiese orientali una particolare venerazione è riservata molti dei personaggi citati nel Nuovo Testamento, in particolare discepoli di Gesù o degli apostoli. Oggi è invece la festa della profetessa Anna, tutt’altra persona dalla leggendaria madre della Madonna, citata con il vecchio Simeone dall’evangelista Luca nel contesto della Presentazione al Tempio di Gesù: “C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,36-38).

Questo singolare personaggio femminile pare fosse dunque in attesa dell’avvento del Salvatore. Se il vegliardo Simeone costituisce una figura vivente del vecchio Israele, dell’Antica Alleanza, che attende la venuta del Messia per scomparire e lasciare il posto alla luce ed alla verità del Vangelo, Sant’Anna rappresenta invece il modello delle sante vedove, delle vergini e delle monache, che si staccano da tutti beni del mondo per dimorare permanentemente nel Tempio del Signore, offrendo i loro digiuni, i loro inni e le loro preghiere nell’ardente attesa della venuta del Salvatore. Quando Anna e Simeone con gli occhi del loro cuore videro il Cristo venuto tra loro, poterono allora annunciare con gioia e certezza che il Salvatore era giunto nel mondo quale “Luce per illuminare le genti e gloria d’Israele suo popolo”.

Anche la Chiesa Cattolica ha ereditato dall’Oriente cristiano la venerazione verso la profetessa Anna ed il nuovo Martyrologium Romanum pone in data odierna, giorno successivo alla Presentazione del Signore, la sua commemorazione unitamente al santo vecchio Simeone.

Autore: Fabio Arduino

 

4 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92200/92200.JPGSant'Aventino di Troyes

Protettore dei mal di testa e di altre malattie nervose

m. 4 febbraio 538

Nasce in Gallia, nella seconda metà del V secolo, a Bourges. Grazie all'educazione cristiana ricevuta, fin da giovane Aventino viene additato come modello. Da adolescente fa visita al vescovo san Lupo di Troyes che nell'anno 451 ha salvato la città dall'invasione di Attila offrendosi come ostaggio. Il presule lo tiene con sé come collaboratore. Insieme i due santi riscattano quanti più prigionieri stranieri di guerra possono, prendendosi cura di questi uomini resi schiavi. Lupo muore nel 479 e gli succede san Cameliano, che nomina Aventino economo. Questi però decide di ritirarsi a vita eremitica. Sebbene non sia incline alle cariche di comando, dopo poco tempo viene eletto superiore della comunità dove è stato accolto. La sua fama, però, va nuovamente diffondendosi tra la gente che spesso lo visita. Decide così di ritirarsi in un luogo solitario lungo la Senna, a sette miglia da Troyes. È il vescovo Cameliano a conferirgli gli ordini sacri. Vive l'ultimo periodo della vita celebrando la Messa nei pressi della sua capanna, per gli abitanti del posto. Muore nel 538. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Troyes nella Gallia lugdunense, ora in Francia, sant’Aventino, che si ritiene sia stato al servizio del vescovo san Lupo.

Nel cuore dell’antica Gallia (l’odierna Francia), nella seconda metà del V secolo, nacque sant'Aventino, probabilmente a Bourges. Dai pochi documenti a noi pervenuti sappiamo che i genitori appartenevano a un ceto sociale medio ed erano molto religiosi. Secondo la tradizione il cristianesimo in quelle terre si diffuse già nel III secolo. I sani principi morali e cristiani dei genitori costituiranno la base della sua santità: fin da giovane era additato come modello.

Divenuto adolescente cominciò ad interrogarsi sullo scopo della sua vita. Volle far visita al personaggio religioso più noto di quella regione, il vescovo S. Lupo di Troyes che nell'anno 451 aveva salvato la città dall’invasione di Attila offrendosi come ostaggio. L’anziano prelato non tardò a scorgere nel giovane sincere virtù cristiane, da far fruttare a gloria del Signore e della Chiesa e lo tenne con sé come collaboratore. Fu l'incontro felice di due veri uomini di Dio. Aventino si distinse per l'umiltà e lo zelo con cui eseguiva il lavoro; costante nelle pratiche di pietà, andava crescendo interiormente. Aveva come esempio un santo che di continuo rivolgeva a lui le sue attenzioni. La virtù che in lui rifulse maggiormente fu la carità verso il prossimo. A quei tempi era diffusa la schiavitù dei prigionieri stranieri di guerra: Lupo e Aventino non rimasero indifferenti davanti ai figli di Dio che venivano trattati come bestie. Ne riscattarono più che poterono, raccogliendo a tale scopo le elemosine. Resa loro la libertà si preoccupavano della loro salute spirituale, facendoli sovente avvicinare ai sacramenti. S. Lupo morì nel 479 e gli successe S. Cameliano, il quale, conoscendo bene le virtù di Aventino, lo fece economo, con ampia facoltà di gestire le elemosine. Dio solo sa quanto diffusa fosse la miseria e le attenzioni di Aventino per i poveri non si limitarono mai ai soccorsi materiali. Destava stupore come le finanze del vescovo potessero far fronte a tante spese, vi era del prodigioso. La fama di Aventino andò diffondendosi, anche con attestati di pubblica riconoscenza, ma egli, tenendo fede alla propria umiltà, col vivo rammarico del vescovo, decise di ritirarsi.

Venne accolto in un romitorio con la volontà di santificarsi vivendo in solitudine. Sebbene non fosse incline alle cariche di comando, dopo poco tempo fu eletto superiore della comunità. Prezioso era il suo esempio e il ritiro divenne una scuola di perfezione. Quel luogo fu chiamato in seguito Isola di S. Aventino. Pur vivendo ritirato dal mondo non poté fare a meno di pensare alla redenzione degli schiavi. Tra gli altri gli giunse notizia di un certo Fidolo, dalle rare virtù, forse già chierico, originario dell’Alvernia, che aveva persa la sua libertà per mano di Teodorico I, Re dell’Austrasia. Era circa l’anno 530. Lo riscattò per dodici monete d’oro. Somma fu la felicità di Fidolo e sembrò quasi naturale la sua decisione di unirsi alla santa comunità. La fama di Aventino intanto andava nuovamente diffondendosi tra la gente che spesso lo visitava. La tranquillità dei confratelli era compromessa e Aventino decise di allontanarsi. Sarà proprio Fidolo a subentrare nella carica di superiore (morì con fama di santo il 16 maggio del 540).

Aventino si ritirò in un luogo solitario lungo la Senna, lontano circa sette miglia da Troyes. Aveva portato con sé solo del pane, dei legumi, una zappa e qualche semente. Non voleva essere di peso a nessuno. Finalmente aveva raggiunto la tranquillità desiderata, dividendo il suo tempo tra preghiera, lavoro e penitenze. Dormiva poco, indossava una povera e rude veste, si cibava solo tre giorni alla settimana. Passò qualche anno ma anche qui non sfuggì all’ammirazione del popolo mentre non si era dimenticato di lui neppure il vescovo S. Cameliano. Questi, che ben sapeva anche della sua conoscenza dei Salmi e della Sacra Scrittura, gli conferì gli ordini sacri. La maturità degli anni veniva coronata dal sacerdozio. Visse serenamente l'ultimo periodo della vita celebrando la Messa nei pressi della sua capanna, a vantaggio degli abitanti del posto. Esigente con se stesso guardava alle necessità del prossimo con il suo grande cuore, operando anche la guarigione di alcuni malati. La sua carità divenne leggendaria e si racconta che anche un orso, una notte, bussò alla sua porta. Coricatosi a terra gli porse una zampa in cui era conficcata una spina. L’eremita lo curò fasciandogli la ferita.

Si addormentò nella pace del Signore il 4 febbraio dell'anno 538.

Acclamato santo e patrono di quei luoghi, qualche anno dopo il vescovo Vincenzo fece costruire una chiesa ove ripose le preziose reliquie e in cui volle poi essere sepolto. Furono erette in suo onore cappelle e chiese, pure fuori dalla Francia. Da tempo immemorabile è particolarmente invocato contro i mali di capo e per le malattie nervose. Oggi nei pressi di Troyes una cittadina ha il suo nome (Saint Aventin sous Verrières) e Creney lo venera Patrono.

Sant’Aventino, eremita e sacerdote, non è da confondere con l’omonimo santo vescovo di Chartres, morto nel 520, venerato anch’esso il 4 febbraio.

PREGHIERA

Fra le molte grazie che il Signore concede a intercessione vostra,

glorioso sant’Aventino,

frequenti sono le guarigioni dai mali di capo e da altri morbi nervosi,

di cui da tempo immemorabile siete singolare protettore.

Con tutta umiltà e fiducia io ricorro al vostro patrocinio

e vi prego d’ottenermi dal Supremo Dator d’ogni bene la salute di mente

e di corpo affinché possa con maggior fervore servire Dio

e attendere ai doveri del mio stato.

Vi domando non solo la liberazione dai mali di capo

ma anche la grazia di vivere emulatore studioso dei vostri esempi

affinché possa un dì pervenire all’eterna felicità,

ove la fede mi guida, la speranza m’invita

e regna eternamente la carità.

Amen .

Autore: Daniele Bolognini

 

5 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/39610/39610.JPGSant'Avito sposo, padre e Vescovo di Vienne

 Vienne, Francia, 450 – 5 febbraio 523

Avito fu arcivescovo di Vienne dal 494 circa al 5 febbraio 523. Apparteneva a un'importante famiglia gallo-romana imparentata con l'imperatore romano Avito e altri illustri personaggi e che si tramandava gli onori ecclesiastici (il padre Isichio era stato prima di lui vescovo di Vienne). In un periodo difficile per la Chiesa nella Gallia meridionale, Avito si impegnò alacremente e con successo nello sradicamento dell'arianesimo tra i burgundi. Riuscì a vincere le resistenze di re Gundobado e a convertire il figlio, re Sigismondo (516-523). Avito presiedette il Concilio di Epaon nel 517.

Martirologio Romano: A Vienne Nella Gallia lugdunense, ora in Francia, sant’Avito, vescovo, per la cui fede e operosità, al tempo del re Gundobaldo, le Gallie furono difese dalla diffusione dell’eresia ariana.

Figura tra le più notevoli della Chiesa delle Gallie alla fine del sec. V e nei primi decenni del VI, Alcimo Ecdicio Avito nacque a Vienne verso il 450 da famiglia senatoria originaria dell'Alvernia alla quale apparteneva anche Sidonio Apollinare e probabilmente l'imperatore Avito (m. 456). Suoi genitori furono il senatore Esichio e la nobile Audenzia, che alla nascita di Fuscina, quarta figlia, fecero voto di continenza. Fuscina poi, a dodici anni, si consacrò a Dio nella vita monastica; un fratello, Apollinare, fu vescovo di Valenza ed è venerato come santo il 5 ottobre. Avito fu battezzato dal vescovo san Mamerto che Avito chiama «praedecessorem suum et spiritalem sibi a baptismo patrem». Cresciuto in un clima familiare dove virtù e cultura avevano trovato una felice alleanza, Avito si sentì ben presto più attratto dallo studio e dalla vita ritirata che dagli onori del mondo. Si sposò ed ebbe figli. Ma verso l'età di quarant'anni, rimasto forse vedovo, distribuì il suo patrimonio ai poveri e si ritirò in un monastero alle porte di Vienne. Intanto alla morte di Mamerto, verso il 475, il padre di Avito era stato eletto vescovo di Vienne. Quando, verso il 490, Esichio morì, Avito fu chiamato a succedergli. La vita di Avito nell'episcopato ci è nota dai suoi scritti e da numerose testimonianze di scrittori contemporanei o non troppo posteriori quali Ennodio di Pavia (In vita beati Epiphanii episcopi), Gregorio di Tours (Historia Francorum, lI, 34), Venanzio Fortunato (In Vita s. Martini), Isidoro di Siviglia (De illustribus Ecclesiae scriptori bus, 23), Agobardo di Lione (Adversus le gem Gundobaldi), Adone di Vienne (Chronicon, aet. sexta). Esiste anche una breve Vita (BHL, I, p. 137, n. 885) compilata nel sec. XI, che nelle grandi linee è attendibile, tratta com'è, in parte, dalla Vita di Apollinare, fratello di Avito, del sec. VI.

A queste testimonianze si può aggiungere l'epitaffio di Avito: venticinque versi che incisivamente fissano i tratti salienti della sua personalità.

Avito si rivelò zelantissimo pastore, pieno di carità verso i poveri, umile, dotato di squisita umanità nell'avvicinare gente di ogni condizione sociale, vigorosamente impegnato alla diffusione della fede, all'estirpazione dell'eresia, alla difesa dell'unità della Chiesa. Nel 494 contribuì al riscatto dei prigionieri liguri catturati dai Burgundi nelle loro scorrerie durante le lotte tra Odoacre e Teodorico. La sua generosa offerta consentì al vescovo Epifanio di Pavia mandato da Teodorico alla corte burgunda di liberare molte migliaia di prigionieri. Ennodio che accompagnava Epifanio così scrisse: «Dedit etiam praestantissimus inter Gallos Avitus, Viennensis episcopus... et actum est, ne Gallis diutius servitum pubes Ligurum duceretur» (Vita Epiphanii). Lavorò senza soste alla conversione dei Burgundi ariani allora padroni di Vienne. Ebbe a tal fine frequenti colloqui col re Gundobaldo, gli scrisse molte lettere per illustrargli la fede cattolica, per confutare l'arianesimo, e pur non essendo riuscito a convertirlo, ne guadagnò però la stima, la simpatia, la tolleranza verso il cattolicesimo. Le sue fatiche furono premiate dalla conversione del figlio di Gundobaldo, Sigismondo, che nel 493 divenne cattolico con la sua famiglia e più tardi, succeduto al padre nel 516, diede ad Avito tutto il suo appoggio per la liquidazione dell'arianesimo nello stato burgundo. In questa lotta contro la eresia si inquadra la lettera vibrante di entusiasmo che Avito indirizzò a Clodoveo all'indomani del suo battesimo, nel 496. La conversione di Clodoveo e dei Franchi al cattolicesimo apparve ad Avito come il colpo di grazia per l'arianesimo in Gallia e fu per questo che scrisse al re: «Invenit quippe tempori nostro arbitrum quemdam Divina provisio: dum vobis eligitis, omnibus iudicatis: vestra fides nostra victoria est» (Epist. XLI). Lottò, inoltre, contro le eresie di Nestorio, di Eutiche, di Fotino (Epist. II, III), e contro il semipelagianesimo di Fausto di Riez (Epist. IV).

Si preoccupò dell'unità della Chiesa, minacciata dallo scisma dell'antipapa Lorenzo a Roma e dal perdurare dello scisma acaciano a Costantinopoli. In difesa di papa Simmaco scrisse una importantissima lettera ai senatori romani Fausto e Simmaco. Parlando a nome di tutto l'episcopato delle Gallie, Avito riaffermò con energia il principio che il papa non può essere giudicato da alcuno, e riferendosi alle conclusioni del sinodo romano del 501 prosegue: «Quibus cognitis, quasi Senator ipse Romanus, quasi Christianus episcopus obtestor... ut in conspectu vestro non sit Ecclesiae minor, quam Reipublicae status... nec minus diligatis in Ecclesia vestra Sedem Petri, quam in civitate apicern mundi. In sacerdotibus ceteris potest, si quid nutaverit, reformari: at si Papa Urbis vocatur in dubium, Episcopatus iam videbitur, non Episcopus, vacillare» (Epist. XXI). Una viva amicizia legò Avito al successore di Simmaco, Ormisda, del quale seguì gli sforzi per la composizione dello scisma acaciano (Epist. LXXX VII). L'autorità di Avito era tanto sentita in tutta la Gallia che da ogni parte si guardava a lui quasi ad una guida, come prova il suo epistolario. Avito restaurò templi e monasteri, in special modo quello di Agaune; promosse il culto dei martiri; convocò e partecipò a sinodi provinciali. Celebre tra tutti quello di Epaone (Saint Romain d'Albon) del 517 che radunò sotto la presidenza di Avito tutto l'episcopato della regione e diede alla Chiesa burgunda la sua organizzazione.

L'anno della morte di Avito è incerto. L'anonimo autore della Vita la pone «Anastasio adhuc principe». L'imperatore Anastasio morì il 1° luglio 518, quindi Avito sarebbe morto prima di tale data. Secondo Adone, invece, Avito sopravvisse al re Sigismondo, sconfitto e ucciso dai Franchi nel 523, della cui morte fu profondamente addolorato. Il bollandista G. Heschen basandosi su questo passo di Adone e sull'Epist. VII di Avito indirizzata a un patriarca di Costantinopoli, in cui sembra felicitarsi per la conclusione dello scisma acaciano, colloca la morte del santo dopo il 523 come fanno alcuni dei più recenti studiosi. A. Gallandi (PL, LIX, coli. 191-96) è, invece, per il principio del 518: Adone avrebbe confuso l'Avito di Vienne con I'Avito abate di Perche o di Micy che era ancora in vita alla morte di Sigismondo.

Il Duchesne (Fastes, I, p. 147) è di questo stesso parere. Per lui l'«Anastasio adhuc principe» proviene dalle indicazioni cronologiche della tomba di Avito copiate dall'autore della Vita. D'altra parte, egli osserva, nessuna lettera di Avito è posteriore al 517. L'Epistola VII non si riferisce alla conclusione dello scisma acaciano del 519, ma solo a voci d'una riconciliazione, in verità premature. Potrebbe quindi essere stata diretta al patriarca Timoteo, anziché a Giovanni il Cappadoce, in occasione delle sue velleità pacifiste del 515.

Le ragioni del Gallandi e del Duchesne sembrano valide. A. Ferrua (Enc. Catt., IT, col. 552) è di questa opinione. J. R. Palanque, invece (DHGE, V, col. 1205) è per il 525.

Il giorno della morte di Avito è noto con certezza. Il Martirologio Geronimiano e la tradizione liturgica viennense la fissano al 5 febbraio. A questa stessa data è ricordato nel Martirologio Romano.

Avito fu sepolto fuori delle mura di Vienne nella chiesa del monastero dei SS. Pietro e Paolo. L'epitaffio si è conservato ed è pubblicato dai Bollandisti e in testa all'edizione delle opere di Avito (in PL LIX, col. 198).

Grande vescovo e grande santo, Avito fu anche scrittore elegante e fecondo. Della sua produzione letteraria, ci son pervenute molte lettere, alcune omelie e due poemetti, opere di cui Avito stesso curò l'edizione nel 507. Gli epigrammi andarono perduti nel sacco di Vienne del 500, compiuto dai Franchi.

Se si escludono venti lettere la cui paternità è incerta, a noi ne sono giunte settantotto delle molte che Avito scrisse e che al tempo di Gregorio di Tours erano divise in nove libri (Hist. Franc., II, 34): ottantotto lettere pubblica Sirmond, novantotto il Peiper. Due di esse, la II e la III, sono dei piccoli trattati contro l'eresia di Eutiche, e così la IV contro il semipelagianesimo. Tutti i problemi religiosi del suo tempo si riflettono in queste lettere di cui abbiamo già rilevato l'importanza storica e il valore dottrinale, nonostante qualche confusione e qualche inesatta valutazione.

Abbiamo poi qualche omelia intera e molte frammentarie, di speciale interesse quella sulle rogazioni di cui Avito ricorda l'istituzione ad opera di Mamerto.

I due poemetti hanno più di ogni altro scritto contribuito alla fama di Avito. Il primo in cinque libri, dal titolo De mosaicae historiae gestis o De spiritualis historiae gestis, riprende con originalità poetica i racconti del Genesi dalla creazione al passaggio del Mar Rosso. Gli storici della letteratura merovingica hanno giudicato i primi tre libri, De initio mundi, De originali peccato, De sententia Dei, come un'anticipazione del Paradiso Perduto di Milton, che forse ne trasse ispirazione. L'altro poemetto De laude castitatis è un inno alla verginità, indirizzato alla sorella Fuscina, ricco di spunti autobiografici.

Queste opere resero famoso il nome di Avito. Vivissima ammirazione spirano gli elogi di Ennodio, di Gregorio di Tours, di Venanzio Fortunato, di Isidoro di Siviglia e di Adone. Nel giudizio positivo su Avito poeta concordano, sostanzialmente, gli studiosi moderni.

Autore: Benedetto Cignitti          Fonte: Enciclopedia dei Santi           

             

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/90597/90597B.JPGBeata Elisabetta Canori Mora Sposa

 Roma, 21 novembre 1774 - Roma, 5 febbraio 1825

Sposa e madre dell'ordine secolare della SS.ma Trinità.

Martirologio Romano: A Roma, beata Elisabetta Canori Mora, madre di famiglia, che, dopo avere a lungo sofferto a causa dell’infedeltà del marito, per le ristrettezze economiche e le crudeli molestie da parte dei parenti, tutto sopportò con insuperabile carità e pazienza e offrì la vita al Signore per la conversione, la salvezza, la pace e la santificazione dei peccatori aggregandosi al Terz’Ordine della Santissima Trinità.

Elisabetta Canori Mora nasce a Roma il 21 novembre 1774 da Tommaso e Teresa Primoli.

La sua è una famiglia benestante, profondamente cristiana e attenta all'educazione dei figli. Il padre era importante proprietario terriero e gestiva molte tenute agricole, un gentiluomo vecchio stampo, amministrava senza avidità disdegnando il sopruso e la sopraffazione.

I coniugi Canori hanno dodici figli, sei dei quali muoiono nei primi anni di vita. Quando nasce Elisabetta trova cinque fratelli maschi ed una sorella, Maria; dopo due anni arriva un'altra sorella, Benedetta.

Nel giro di pochi anni, i cattivi raccolti, la moria di bestiame e l'insolvenza dei creditori, cambia la situazione economica e Tommaso Canori si trova costretto a ricorrere all'aiuto di un fratello che abita a Spoleto che si fa carico delle nipoti Elisabetta e Benedetta.

Lo zio decide di affidare le nipoti alle Suore Agostiniane del monastero di S. Rita da Cascia, qui Elisabetta si distingue per intelligenza, profonda vita interiore e spirito di penitenza.

Rientrata a Roma, conduce per alcuni anni vita brillante e mondana, facendosi notare per raffinatezza di tratto e bellezza. Elisabetta giudicherà questo periodo della sua vita un "tradimento", anche se la sua coerenza morale non viene meno e la sua sensibilità religiosa è in qualche modo salvaguardata.

Un alto prelato che conosce bene i problemi economici e le qualità spirituali della famiglia Canori, propone di far entrare Elisabetta e Benedetta nel monastero delle Oblate di S. Filippo, facendosi carico di tutte le spese. Benedetta accetta e si fa suora nel 1795, Elisabetta no, non se la sente di lasciare la famiglia in difficoltà.

Il 10 gennaio 1796 nella chiesa di Santa Maria in Campo Corleo, si celebra il matrimonio con Cristoforo Mora, ottimo giovane, colto, educato, religioso, ben avviato nella carriera di avvocato. Il matrimonio è una scelta maturata attentamente ma, dopo alcuni mesi, la fragilità psicologica di Cristoforo Mora compromette tutto. Allettato da una donna di modeste condizioni, tradisce la moglie e si estranea dalla famiglia, riducendola sul lastrico.

Elisabetta alle violenze fisiche e psicologiche del marito risponde con una totale fedeltà. La nascita delle figlie Marianna nel 1799 e Maria Lucina nel 1801 non migliora le cose. Costretta a guadagnarsi da vivere col lavoro delle proprie mani, segue con la massima attenzione le figlie e la cura quotidiana della casa, dedicando nello stesso tempo molto spazio alla preghiera, al servizio dei poveri e all'assistenza degli ammalati.

La sua casa diventa punto di riferimento per molte persone che a lei si rivolgono per necessità materiali e spirituali. Svolge un'azione particolarmente attenta alle famiglie in difficoltà. Conosce ed approfondisce la spiritualità dei Trinitari e ne abbraccia l'ordine secolare, rispondendo con dedizione alla vocazione familiare e di consacrazione secolare.

La fama della sua "santità", l'eco delle sue esperienze mistiche e dei suoi "poteri taumaturgici" hanno grande risonanza particolarmente a Roma e nelle sue vicinanze. Niente, però, incide sul suo stile di vita povero, improntato ad una grande umiltà e ad un generoso spirito di servizio ai poveri e ai lontani da Dio.

Dona se stessa per la conversione del marito, per il Papa, la Chiesa e la sua città di Roma, dove muore il 5 febbraio 1825. È sepolta nella Chiesa di San Carlino.

Subito dopo la sua morte, il marito si converte, entra nell'Ordine secolare dei Trinitari e diviene, poi, frate Minore Conventuale e sacerdote, come gli aveva predetto la consorte.

Elisabetta Canori Mora viene beatificata il 24 aprile 1994 -Anno Internazionale della Famiglia.

 

"Mi distaccai dalle vanità, vinsi molti ostacoli che m 'impedivano d'andare a Dio…".

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/93977/93977.JPG"Propongo di non desiderare niente che sia di mio profitto, ma di compiere in ogni istante della mia vita la santa volontà di Dio".

 

"Figlia mia diletta, offriti al mio celeste Padre a pro della Chiesa: ti prometto il mio aiuto …".

(dall'autobiografia)

 

"Una simile madre non si trova al mondo, e io sono indegno di esserle consorte".

( il marito Cristoforo alle figlie) .

Autore: Carmelo Randello

 

Beata Eulalia Pinos Vedova

 Nata da nobile famiglia, la Beata Eulalia Pinos, rinunciò alla vita secolare e ricchezze entrando fra le mercedarie di Barcellona e fu anch’essa una delle prime a seguire Santa Maria di Cervellon, ricevendo l’abito dal Beato Bernardo da Corbara. Insigne per molte virtù aprì le sue mani ai poveri e abbracciando la Santa croce con una morte preziosa volò al regno celeste.

L’Ordine la festeggia il 5 febbraio.

 

6 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/93366/93366A.JPGSanti Martiri Giapponesi

+ Nagasaki, Giappone, 5 febbraio 1597

La Chiesa Cattolica festeggia in data odierna i Santi Martiri Giapponesi (gruppo meglio noto come: San Paolo Miki e 25 compagni), posticipando di un giorno la memoria rispetto all’anniversario del tragico eccidio di questa schiera di sacerdoti, religiosi e laici indigeni del Giappone, nonché alcuni missionari, primi ad effondere con il loro sangue questa terra in testimonianza della fede in Cristo.

La prima comunità cattolica del Giappone fu fondata a Kagoshima nel 1549 dal gesuita San Francesco Saverio, patrono delle missioni, giuntovi dall’India con due confratelli ed un neofita, il nobile guerriero Anjiro, che aveva ricevuto il battesimo con un suo amico ed un suo servo. In due anni il grande santo fondò altre comunità nell'isola Hirado, a Bungo ed a Yamagushi, da cui il cristianesimo si diffuse in altri centri, compresa la capitale Miyako, con il favore dei signori feudali. Per oltre quarant'anni il cristianesimo godette di ampia libertà e continuò perciò la sua marcia, facilitata da conversioni collettive, proprie del sistema feudale, in cui i sudditi sono spinti ad imitare l’esempio dei propri signori. Nel 1587 i cattolici avevano già raggiunto la cifra di ben 205000 unità ed erano assistiti da 43 sacerdoti, coadiuvati da altri 73 tra chierici e fratelli, 47 dei quali di nazionalità giapponese.

Il primo editto di persecuzione nei loro confronti risale al 24 luglio 1587 e venne emanato da Toyotomi Hideyoshi, luogotenente generale dell'imperatore, che però non fece dare esecuzione ma ponendo tuttavia le premesse per le successive sanguinose persecuzioni. La Compagnia di Gesù continuò ad esercitare indisturbata il suo apostolato, insieme con i Francescani giunti nel 1593 dalle Filippine. Svariate furono le cause del primo bando: il rifiuto da parte dei Gesuiti di una nave per una spedizione militare giapponese in Corea, l’opposizione delle vergini cristiane a divenire concubine dell'imperatore; il timore dell'influsso straniero con l'aumento dei cattolici. Ciò che invece nel 1597 provocò un nuovo decreto di persecuzione, questa volta poi attuato, furono le fantasticherie con cui il comandante spagnolo della nave San Filippo, arenatasi sulla coste giapponesi, urtò la suscettibilità del dissoluto imperatore Taikosama Hideyoshi, uccisore del suo predecessore, Oda Nobunaga (+1582). Il capitano gli spiegò infatti che l’elevato numero di terre possedute dal re di Spagna in ambo gli emisferi del pianeta era proprio dovuto all’opera dei missionari cattolici, che avrebbero preparato la strada ad una conquista militare. L'imperatore, da principio favorevole ai cristiani, s'insospettì dunque delle reali intenzioni dell'apostolato dei gesuiti e dei francescani e, temendo della veridicità di quanto riferitogli, l'8 novembre 1596 ordinò ai governatori di Osaka e Miyako di far arrestare tutti i religiosi che vi si trovavano.

I perseguitati riuscirono a disperdersi in tempo nelle campagne, fatta eccezione di tre gesuiti, sei francescani e diciassette loro terziari, che vennero arrestati all'inizio del 1597 e condotti tutti sulla piazza di Miyako con le mani legate dietro la schiena. Fu poi tagliato loro un pezzo dell'orecchio sinistro, non avendo voluto il governatore Xibungo che, in adempimento alla sentenza dell'imperatore, fossero recise ad essi entrambe le orecchie e mozzato il naso. I prigionieri, grondanti sangue, furono fatti salire a gruppi di tre sopra delle carrette e condotti quali malfattori per le contrade della città, preceduti da una guardia che recava scritto sopra un'asta il motivo della loro condanna: “Perché costoro, venuti dalle Filippine con titolo di ambasciatori, si trattenevano in Miyako predicando la legge dei cristiani, che io proibii gli anni passati rigorosamente, e hanno fabbricato la chiesa e fatto scortesie, comando che siano crocifissi a Nagasaki insieme con i giapponesi che si fecero della loro legge”. La popolazione, in un mesto silenzio, mostrò pietà e simpatia per quelle innocenti vittime che pregavano ed insieme andavano con serenità verso l’ultima meta. In particolare tre fanciulli, Tommaso Cesaki, Antonio da Nagasaki e Ludovico Ibarki, commossero anche i più insensibili spettatori, intenti a cantare con voce angelica inni al loro Signore. Qualche cristiano chiese alle guardie di poter salire sulle carrette, ma esse non osarono infrangere gli ordini ricevuti.

L'imperatore aveva infatti disposto che il viaggio da Miyako a Nagasaki, circa 450 miglia, fosse fatto a cavallo e a piedi, sia per intimidire il popolo che per aumentare le sofferenze ai futuri martiri. Dopo il lungo percorso durato ventisei giorni, fra le intemperie atmosferiche, il 1° febbraio 1597 giunsero a Korazu. Paolo Miki, divenuto il più celebre del gruppo in quanto primo giapponese entrato in un ordine religioso, tentò invano di convertire un gentiluomo suo conoscente. Il comandante della città tentò di far apostatare due dei fanciulli suddetti, Ludovico ed Antonio, ma non ebbe successo nella sua iniziativa. Constatando come i prigionieri preferissero morire anziché rinnegare la propria fede, ordinò che a Nagasaki venissero innalzate cinquanta croci sulla collina attigua ala città. I prigionieri ottennero di porsi confessare, ma fu vietato ai sacerdoti giunti per l’occasione di celebrare l’Eucarestia e dunque di comunicarsi.

I portoghesi avevano manifestato il loro malumore e il governatore di Nagasaki temeva una sollevazione popolare, ma nonostante ciò il 5 febbraio 1597 i prigionieri furono avvisati che si avvicinava l'ora dell'esecuzione e furono portati sulla collina ove, in un recinto, erano state erette le ventisei croci. Al loro passaggio i cristiani si prostrarono per raccomandarsi alle loro preghiere. Non appena i condannati a morte scorsero le croci che portavano scritto i loro nomi, s'inginocchiarono innanzi ad esse e le baciarono. Ciascuno fu legato vestito a quella che gli era stata assegnata e tutti contemporaneamente furono issati in alto. Al comando di Azamburo quattro guardie impugnarono le lance, uno dei crocifissi intonò allora il “Benedictus” e tutti lo cantarono insieme con un coraggio e una pietà tali da intenerire persino i pagani presenti. Il piccolo Antonio per conto suo intonò il salmo "Lodate, fanciulli, il Signore", al quale fecero eco gli altri due suoi compagni fino alla fine, Tommaso e Ludovico. Il primo ad essere ucciso da due colpi di lancia fu Felipe Las Casas, mentre l'ultimo fu Padre Pierbattista. Prima che quest’ultimo morisse una donna pagana, priva della parola, a contatto della croce da cui egli pendeva riacquistò improvvisamente la voce. Il santo le amministrò il battesimo con la mano libera dai lacci. Paolo Miki approfittò sino all'ultimo per predicare con la straordinaria eloquenza che sempre lo aveva contraddistinto, terminando con una fervente preghiera per i suoi carnefici e la conversione di tutti i giapponesi.

Quando tutti furono trafitti, i cristiani fecero irruzione nel recinto per raccogliere con devozione il sangue dei martiri mediante pannolini. Per oltre sessanta giorni gli uccelli rapaci rispettarono i loro corpi, dai quali emanava un fragrante odore. Il corpo di Padre Pierbattista fu visto alcune volte discendere miracolosamente dalla croce per recarsi a celebrare l’Eucaristia nella chiesa di Nagasaki, con il piccolo Antonio in veste bianca in funzione di chierichetto, tra il canto delle schiere angeliche. Per invitare alla fede cristiana i pagani, Dio fece sì che attorno al capo dei martiri apparisse più volte un'aureola luminosa e che dal cielo scendessero su ciascuno globi di fuoco. Sessantadue giorni dopo la morte, il corpo di Padre Pierbattista si mosse alla presenza di innumerevoli testimoni e dalle sue ferite sgorgò, come già avvenuto al terzo giorno dopo la morte, una copiosissima quantità di sangue.

La venerazione nei confronti di questi gloriosi martiri non venne ami meno nei cristiani, anzi la loro fama si propagò ben presto nel mondo, essendo i missionari di varie nazionalità. Papa Urbano VIII beatificò i protomartiri giapponesi il 14 settembre 1627 e il pontefice Beato Pio IX infine li canonizzò l'8 giugno 1862.

 

Riportiamo di seguito l’elenco dei ventisei martiri, corredato da luoghi e date di nascita ed alcune scarne informazioni su ciascuno:

 

PEDRO BAUTISTA BLÁSQUEZ y BLÁSQUEZ, Sacerdote dei Frati Minori Alcantarini, * San Esteban del Valle (Spagna), 24 giugno 1542 - Commissario dei Frati Minori, fu in Spagna predicatore, guardiano e lettore di filosofia, poi missionario nel Messico (1581) e nelle Filippine (1583). Inviato da Manila come ambasciatore e missionario in Giappone (1593), fu ben accolto dall'imperatore e poté fondare tre conventi e due ospedali. Dotato del dono dei miracoli, nella festa di Pentecoste guarì una giovanotta lebbrosa;

- MARTÍN LOINAZ AMUNABARRO [AGUIRRE] (MARTINO DELL’ASCENSIONE), Sacerdote dei Frati Minori Alcantarini, * Beasain (Spagna), 1566 - nato nel castello di Vergara presso Pamplona, aveva esercitato le funzioni di predicatore e di professore di teologia e conosceva bene la lingua giapponese;

- FRANCISCO BLANCO, Sacerdote dei Frati Minori Alcantarini, * Monterrey (Spagna), 1567 circa - sacerdote di vita austera;

- FELIPE LAS CASAS MARTÍNEZ (FILIPPO DI GESU’), Chierico dei Frati Minori Alcantarini, * Città del Messico (Messico), 1571 – nato in Messico da genitori spagnoli, per i suoi disordini fu cacciato di casa. Pentito, vestì l'abito francescano, ma non perseverò. Dopo aver condotto ancora una vita disordinata, a Manila si fece di nuovo francescano, giunse a Miyako proprio al momento degli arresti;

- GONÇALO GARCIA, Religioso dei Frati Minori Alcantarini, * Bazein (India), 1562 - fratello laico, nato in India da genitori portoghesi, per amore della povertà rinunciò al commercio. Siccome sapeva bene il giapponese fece da interprete al Padre Pierbattista nella sua ambasciata a Taicosama;

- FRANCISCO ANDRADE (FRANCESCO DI SAN MICHELE), Religioso dei Frati Minori Alcantarini, * La Parrilla (Spagna), 1543 - nato da nobili genitori e dotato del dono delle lingue e dei miracoli, operò in Giappone più conversioni degli altri suoi compagni;

- PAOLO MIKI, Chierico gesuita, * Setsu-no-Kuni (Giappone), 1564 - di nobile famiglia cattolica, allievo dei Gesuiti dagli undici anni, a ventidue era stato ammesso nella Compagnia di Gesù in cui rifulse per l'osservanza delle regole. Fu il più celebre predicatore gesuita in Giappone;

- GIOVANNI SOAN, Chierico gesuita, * Goto-retto (Giappone), 1578 - sacrestano e catechista, era entrato nella Compagnia di Gesù poco tempo prima il suo arresto;

- GIACOMO KISAI, Religioso gesuita, * Haga (Giappone), 1533 - catechista, abbandonato dalla moglie, nella casa dei gesuiti esercitava l'ospitalità secondo il costume giapponese;

- PAOLO SUZUKI, Laico coniugato, terziario francescano, catechista, * Owari (Giappone), 1563 - direttore dell'ospedale di San Giuseppe in Miyako;

- GABRIELE DUIZKO, Giovane laico, terziario francescano, catechista, * Ise (Giappone), 1577 - convertito da Golzales Garcia, devotissimo dell'Eucarestia e della Passione di Gesù;

- GIOVANNI KINUYA, Laico, terziario francescano, catechista, * Kyoto (Giappone), 1568 - convertito con la moglie e il figlio lo stesso anno del martirio;

- TOMMASO DANGI, Laico, terziario francescano, catechista, * Kyoto (Giappone), ? - soccorritore dei poveri;

- FRANCESCO DI MIYACO, Laico, terziario francescano, * Kyoto (Giappone), 1548 - medico di professione e scrittore di opuscoli in difesa della fede;

- GIOACCHINO SAKAKIBARA, Laico, terziario francescano, * Osaka (Giappone), 1556 - convertito dalla moglie, cuoco dell'ospedale e dei frati;

- BONAVENTURA DI MIYACO, Laico, terziario francescano, * Kyoto (Giappone), ? - fatto battezzare dal padre ancora bambino e cresciuto dalla madre idolatra tra i bonzi per vent'anni;

- LEONE KARASUMARU, Laico, terziario francescano, catechista, * Owari (Giappone), ? - catechista e interprete di nobile famiglia coreana, di vita austerissima, convertito da Cosimo Takeya;

- MATTIA DI MIYAKO, Laico, terziario francescano, * Kyoto (Giappone), ? - spontaneamente si offrì a sostituire un altro Mattia assente perché provveditore del convento;

- ANTONIO DA NAGASAKI, Bambino, terziario francescano, * Nagasaki (Giappone), 1584 - chierichetto tredicenne, di padre cinese e madre giapponese;

- PAOLO IBARAKI, Laico, terziario francescano, * Owari (Giappone), ? - catechista, fratello uterino di Leone Garasuma;

-LUDOVICO IBARAKI, Bambino, terziario francescano, * Owari (Giappone), 1584 - nipote del precedente, appena dodicenne, servitore del convento;

- MICHELE KOZAKI, Laico coniugato, terziario francescano, * Ise (Giappone), 1551 - soccorritore dei poveri e dei malati nella propria casa;

TOMMASO KOZAKI, Bambino, terziario francescano, * Ise (Giappone), 1582 - figlio del precedente, quattordicenne, servitore dei muratori nella costruzione della chiesa e del convento di Miyako;

- PIETRO SUKEJIRO, Laico, terziario francescano, * Kyoto (Giappone), ? - cristiano di antica data, incaricato da Padre Organtino di Sakai di seguire i prigionieri e assisterli nelle loro necessità;

- COSIMO TAKEYA, Laico, terziario francescano, * Owari (Giappone), ? - catechista, di nobile famiglia della provincia di Oari;

- FRANCESCO KICHI, Laico, terziario francescano, * Kyoto (Giappone), ? - calzolaio, che si associò al precedente nella cura dei prigionieri.

Autore: Fabio Arduino

 

Sant'Ina (Im, Ine) Re del Wessex

VII-VIII secolo

Quando nel 688 Caedwalla, re del Wessex, andò a Roma (dove morì cristiano il 20 apr. 689), gli successe un lontano parente, Ina figlio di Cenred (che viveva ancora durante il regno di suo figlio) e fratello delle ss. Cineburga e Cutburga. Probabilmente Ina dovette questa successione al suo valore militare. In seguito, un buon numero di vittorie lo misero in grado di estendere il suo dominio verso Est fino al Kent e all'Essex. Prima del 694 anche Londra gli fu soggetta; riuscì ad annettersi, inoltre, i territori del Somerset occidentale e del Devon dove insediò dei coloni e costruì villaggi fortificati. Più tardi respinse un attacco dei Merci e nel 725 sconfisse i Sassoni meridionali.

Ina si interessò profondamente del benessere sia spirituale, sia temporale dei suoi sudditi. Tra il 688 e il 694 pubblicò un codice di leggi (edito integralmente in English Historical Documenti, I, [app. 500-1042], ed. D. Wkitelock, Londra 1955, pp. 364-72), il più ricco e antico codice che ci rimanga. Il prologo inizia cosi: « Io, Ina per grazia di Dio re dei Sassoni Occidentali, con il parere e le istruzioni di mio padre Cenred e del mio vescovo Haedde (di Winchester) e... Eorcenwold (di Londra), con tutti i miei anziani, i consiglieri capi del mio popolo e una grande assemblea di servi di Dio, sono stato richiesto, per la salvezza delle nostre anime e la sicurezza del nostro regno, di stabilire e rafforzare vere leggi e veri statuti per tutto il nostro popolo...».

Le leggi riguardano ampiamente le pene e i compensi per danni e offese. Altri decreti sono di carattere ecclesiastico: il Battesimo deve essere amministrato entro trenta giorni dalla nascita; la domenica si deve osservare il riposo, ecc.

Ina dava molto ascolto ai consigli di Aldhelm che nominò primo vescovo della nuova sede di Sherborne, dove fondò anche una grande scuola. Concesse molti benefici a Glastonbury costruendovi una chiesa nel tentativo forse di tenere uniti nel suo regno elementi celtici e sassoni.

Sebbene Beda (Hist. Eccl., IV, 15; V, 7, ed. C. Plummer, I, Oxford 1896, pp. 236, 294) non gli dedichi molto spazio, Ina fu in realtà uno dei più notevoli predecessori di Alfredo.

Nel 726, abdicò, e con sua moglie Ethelburga fece un pellegrinaggio a Roma, dove morì. Non vi sono prove che Ina e sua moglie abbiano ricevuto un culto liturgico come santi e che lo stesso Ina abbia fondato una scuola o un ospizio anglo-sassone a Roma, per il cui mantenimento si crede avesse istituito un Romescot (= Obolo di s. Pietro). Tuttavia è commemorato al 6 febb. in tardivi martirologi inglesi e dell'Ordine Benedettino (v. Zimmermann, I, p. 179).

Autore: Leonard Boyle     Fonte: Enciclopedia dei Santi

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/91199/91199.JPGBeata Ildegonda vedova e Monaca premostratense

 + 6 febbraio 1183

Contessa di Meer, presso Neuss (Colonia), sposò il conte Lotario. Alla morte di questo, visitò il sepolcro degli Apostoli a Roma, per ottenere di conoscere meglio la volontà di Dio e poterla eseguire. Decise poi di abbandonare il mondo e destinò i suoi beni alla fondazione del monastero di Meer, dell’Ordine Premostratense, di cui divenne la prima maestra.

Si distinse per l’umiltà. Compì opere di carità e di misericordia sia dentro, sia fuori del monastero. Morì il 6 febbraio 1183.

Benché sia stata chiamata santa o beata da scrittori premostratensi, tuttavia non sembra che abbia mai goduto di un culto liturgico. Riscosse però una limitata venerazione popolare, tanto che era invocata con una breve preghiera composta in suo onore, e la sua cintura e il suo pettine venivano portati a donne prossime al parto o ad infermi per ottenere loro la protezione divina.

Autore: Giovanni Battista Valvekens       Fonte: Enciclopedia dei Santi

 

7 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/39850/39850.JPGSan Riccardo Re degli Inglesi

 m. a Lucca, 722

Visse nell’VIII secolo e fu il padre di tre importanti santi: Villibaldo, Vunibaldo e Valburga. La sua vita fu caratterizzata da una intensa preghiera e venerazione verso la Sacra Famiglia e gli altri santi: infatti insieme ai figli si recò a Roma con la speranza di trovarvi le reliquie dei SS. Pietro e Paolo. Morì a Lucca e venne seppellito nella basilica di S. Frediano.

Etimologia: Riccardo = potente e ricco, dal provenzale

Martirologio Romano: A Lucca, deposizione di san Riccardo, padre dei santi Villibaldo e Valburgo, che in pellegrinaggio con i figli dall’Inghilterra verso Roma morì lungo il cammino.

San Riccardo, commemorato in data odierna 7 febbraio dal Martyrologium Romanum, è sicuramente uno di quei personaggi dei quali è alquanto difficile, se non addirittura impossibile, far emergere dall’oblio del tempo quali figure storicamente ben definite. Le precedenti edizioni del suddetto martirologio lo volevano “re d’Inghilterra”, ma ora è citato solamente quale pellegrino alla Città Eterna e padre dei santi Villibaldo vescovo di Eichstatt (dall’inglese Willibald, festeggiato il 7 giugno), Vunibaldo abate di Heidenheim (dall’inglese Wynnebald, festeggiato il 18 dicembre) e Valburga vergine (25 febbraio). Anche il reale nome di Riccardo è sconosciuto e quest’ultimo è semplicemente frutto di una fantasiosa leggenda fiorita a Eichstatt in Baviera nel X secolo ed a Lucca due secoli dopo.

Questa nobile famiglia proveniva dal Wessex, regione inglese, e secondo un tardivo racconto della monaca Hugebure di Heidenheim verso il 720 il padre partì con i due figli maschi in pellegrinaggio verso Roma. Villibaldo era appena ventenne e Vunibaldo diciannovenne. Navigando sul fiume Hamble, vicino al Southampton, attraversarono la Manica e risalirono quindi la Senna, per sbarcare infine a Rouen. Non prima di aver visitato numerosi santuari francesi, i tre pellegrini si diressero allora in Italia, ma Riccardo morì presso Lucca nel 722, prima di giungere a Roma. Nella città toscana il santo pellegrino riposa ancora oggi e le sue reliquie sono oggetto di venerazione nella basilica di San Frediano.

Villibaldo si unì poi al celebre San Bonifacio nell’opera di evangelizzazione della Germania, fondando il doppio monastero di Heidenheim e divenendo primo vescovo della città di Eichstatt. Anche Vunibaldo fu con loro missionario e resse il monastero di Heidenheim con la sorella Valburga. Quando Villibaldo morì e fu sepolto ad Eichstatt, si ipotizzò di traslarvi anche i resti di Riccardo, ancora deposti a Lucca, perché potessero riposare accanto a quelli del figlio. I fedeli di Lucca si opposero però fermamente a tale eventualità e gli abitanti di Eichstatt dovettero così accontentarsi di un po’ di polvere proveniente dalla sua tomba.

Proprio dal monastero di Heidenheim derivò il documento detto “Hodoeporicon”, attribuito alla monaca predetta, che tratta principalmente della vita di San Villibaldo e dal quale derivano le poche notizie su San Riccardo. In considerazione però dell’eccelsa santità della sua prole e dei numerosi miracoli verificatisi sulla sua tomba in San Frediano, fu allora inventata artificiosamente una vita di “San Riccardo, re dell’Inghilterra”, titolo tributatogli così anche dal martirologio cattolico sino al 1956.

 

PREGHIERA

Sii benedetto, o Dio, nostro Padre,

che hai dato a San Riccardo la forza di abbandonare gli onori ed i poteri della terra,

per dedicarsi in umiltà e letizia a una vita orante e penitente.

Pellegrino instancabile, all’insegna della croce,

attraversò le regioni d’Europa visitando i santuari della fede.

Sulle sue orme i figli Villibaldo, Vunibaldo e Valburga

raggiunsero la sede dell’apostolo Pietro

e i centri del monachesimo attingendo a quelle preziose sorgenti i tesori della tua grazia.

Con l’aiuto e l’esempio di San Bonifacio di Fulda

divennero evangelizzatori delle popolazioni germaniche

e promotori di vita apostolica e contemplativa.

Concedi a noi, per intercessione di questa famiglia di santi,

il dono della conversione per contribuire da veri discepoli

e testimoni di Cristo Redentore al’edificazione di un mondo nuovo,

aperto alle sorprese del tuo Spirito.

Per Cristo nostro Signore.

Amen.

Autore: Fabio Arduino

 

Beata Anna Maria Adorni sposa, madre e Fondatrice

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/91103/91103A.JPG Fivizzano, Massa Carrara, 19 giugno 1805 - Parma, 7 febbraio 1893

Fondatrice delle Ancelle della B.V.M. Immacolata e dell'Istituto del Buon Pastore

"Al tramonto della vita saremo giudicati sulla carità". Così scrisse il mistico dottore S. Giovanni della Croce, commentando le parole del Vangelo, nelle quali Cristo affermò che nell'ultimo giorno avrebbe considerato come suoi coloro che lo avessero riconosciuto con la fede e circondato di carità nei più piccoli dei suoi fratelli, accogliendolo in essi come ospite, ricoprendolo nudo, visitandolo infermo e carcerato, soccorrendolo nella fame e nella sete. Questo, con santa e infaticabile attività, operò fino a tarda età la Serva di Dio Anna Maria Adorni, la cui vita fu un completo ininterrotto dono di carità verso le membra più umili di Cristo.

Nata il 19 giugno 1805 a Fivizzano, nel territorio dell'odierna diocesi di Pontremoli, ebbe come genitori Matteo Adorni ed Antonia Zanetti, pii cristiani, i quali quattro giorni dopo la nascita fecero rigenerare in Cristo la figlia col battesimo, educandola poi secondo gli insegnamenti della fede. Desiderosa di annunciare il nome di Cristo, a sette anni appena, lasciò con una compagna la casa, con l'intenzione di raggiungere le Indie per salvare le anime. Ricondotta subito a casa, venne formata specialmente dalla madre ad orientare la sua vita secondo il Vangelo ed avviata ai lavori femminili, finché, morto il padre nel 1820, dovette trasferirsi a Parma con la madre, e fu scelta all'ufficio di istitutrice presso la famiglia Ortalli. Mentre pensava di abbracciare la vita religiosa tra le monache Cappuccine, in ossequio alla madre che si opponeva al pio desiderio, il 18 ottobre 1826 sposò il distinto Signor Antonio Domenico Botti, addetto alla Casa Ducale di http://www.santiebeati.it/immagini/Original/91103/91103B.JPGParma, al quale diede sei figli, tutti morti in tenera età, ad eccezione di Leopoldo che poi abbracciò la vita  monastica nell'Ordine Benedettino. Il 23 marzo 1844 rimase vedova del marito, che aveva circondato di vero amore. Lo pianse piamente, ritenendo la sua morte come via della volontà di Dio, attraverso la quale condurre finalmente una vita consacrata a Dio solo. Tuttavia non entrò in alcun Istituto religioso; per consiglio del confessore, intraprese un cammino di carità a sollievo specialmente delle carcerate, per le quali fu in Cristo madre e sorella. Le avvicinava con umiltà, le ascoltava con affabile serenità, le consolava con parole ed aiuti, le ammaestrava con gli insegnamenti della fede, le innalzava con la speranza e la preghiera alle cose celesti, in modo tale che il carcere sembrava cambiato in un convento. Molte signore, attratte dagli esempi della Serva di Dio, la imitarono nel compimento della sua opera di carità, con la Associazione, riconosciuta canonicamente dal Vescovo nel 1847 ed approvata dalla Duchessa di Parma, chiamata: "Pia Unione delle Dame visitatrici delle carceri sotto la protezione dei Santissimi Cuori di Gesù e di Maria". Santamente sollecita anche delle donne dimesse dal carcere, Anna Maria poté prendere in affitto una casa per loro e per le fanciulle pericolanti ed orfane. L'opera prese ispirazione dal "Buon Pastore" -come poi fu chiamata - e per essa, superando innumerevoli difficoltà, trovò una sede adatta il 18 gennaio 1856 nell'antico convento delle monache Agostiniane, dedicato a San Cristoforo.

Per provvedere in maniera più idonea all'opera iniziata, pensò di fondare una famiglia religiosa, i cui membri alimentassero quella fiamma di carità che lo Spirito Santo aveva acceso nel suo cuore. Pose le fondamenta del nuovo Istituto il 1° maggio 1857 con otto compagne; nel 1859 pronunciò con esse i sacri voti privati di castità, obbedienza e povertà e con nuovo saldissimo voto religioso consacrò la vita al recupero delle donne cadute, alla tutela delle pericolanti, alla materna assistenza delle derelitte e delle orfane. Date sapienti Regole al nuovo Istituto, fu nominata superiora delle Sorelle. Le precedette con gli esempi di tutte le virtù e soprattutto di una intensissima carità, ammirevole per la attività e totale donazione di sé nelle cose più difficili e più umili.

Il 25 marzo 1876 il Vescovo di Parma Domenico Villa eresse canonicamente l'Istituto del Buon Pastore in Congregazione religiosa, sotto il titolo di "Pia Casa delle Povere di Maria Immacolata" e le Regole vennero confermate il 28 gennaio 1893 dal suo successore, Andrea Miotti. La Serva di Dio, sempre intenta con animo giovanile alle opere di carità, colpita da paralisi di breve durata, il 7 febbraio 1893, notissima per fama di santità, in Parma passò da questo mondo al Padre, per ricevere il premio riservato a coloro che vedono, amano ed aiutano Cristo nei poveri e negli infelici.

Tutta la vita della Serva di Dio fu esercizio di intensa carità, con cui si sforzò di imitare il Salvatore, il quale " ci amò e diede la sua vita per noi ". Ebbe come fonte inesauribile di amore la comunione con Dio, alla cui presenza sempre camminò.

Come essa stessa confessò in vecchiaia, già da molti anni Dio le aveva concessa la grazia di non distogliersi mai dall'intima comunione con Lui, in modo tale che, benché piena di occupazioni, dedita all'educazione delle fanciulle, impegnata in colloqui ed occupata da affari di ogni genere, mai si dimenticò di Dio presente in lei. Infatti pregava sempre e in "ogni circostanza, veramente degna di essere chiamata comunemente dalle sue figlie "Rosario vivente", come se questo fosse il suo nome. Era attratta da singolare devozione all'Eucarestia; partecipando ad essa con fede, alimentava la carità ed anche le forze fisiche, colle quali soccorreva attivamente tutti i bisognosi nelle loro necessità. Non vi era in essa alcuna frattura tra contemplazione ed azione; con la stessa fede e carità tendeva a Dio nella preghiera e comunicava con Cristo vivente negli infelici, ricercandolo e servendolo in loro, né poteva mai separarsi dal suo amore.

Con l'aiuto di Dio, poté raggiungere questo in forza della grande fedeltà per la quale fece il proposito, e lo praticò fino in fondo, di fare sempre le cose più perfette, di cercare con le opere la gloria di Dio, di morire a se stessa in tutto e di servire attivamente i fratelli. Poverissima per sé, ma ricchissima per gli altri, disprezzò l'oro e l'argento, di cui tuttavia si servì con grande liberalità quando si trattava di lenire dolori e distogliere le anime dal peccato. Sostenne innumerevoli difficoltà e contrarietà, e non ne fu mai abbattuta; accoglieva le tribolazioni come dono col quale poter godere nella speranza, e rianimare lo spirito dei fratelli contro ogni disperazione. Di qui l'invitta fortezza della Serva di Dio in tutto, l'inalterabilità dello spirito anche nelle avversità, la dolcezza dei modi unita ad una santa affabilità; sapeva infatti che non sarebbe stato deluso nessuno che avesse posto la sua fiducia in Dio e avesse speso generosamente la propria vita al suo servizio. Di qui anche la sua costante perseveranza fino alla morte, nelle iniziative destinate soprattutto a sollevare le miserie delle donne. Consacrata in tutto alla carità per vocazione ed opere, sentì intensamente come suo maggior impegno di ripetere in sé l'immagine del Salvatore, veramente felice allorquando, divenuta un angelo vivente, abbracciava nella carità tutti quelli http://www.santiebeati.it/immagini/Original/39840/39840.JPGche soffrivano nel corpo e nello spirito e li affidava all'amore di Cristo.

La fama della santità della Serva di Dio non si affievolì dopo la morte e infine, nell'anno 1940, per disposizione del Vescovo, si istruì presso la Curia di Parma il processo informativo sugli scritti e il "non culto" della Serva di Dio; gli atti furono trasmessi a Roma per essere discussi secondo le norme del diritto.

Il 15 dicembre 1977, fatta relazione al Sommo Pontefice Papa Paolo VI, Sua Santità, considerato il responso della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi, ordinò che si stendesse il Decreto sulle virtù eroiche della Serva di Dio, che fu dichiarata Venerabile.

Autore: Padre Guglielmo, Postulatore

 

 Santa Giuliana Vedova

Martirologio Romano: A Firenze, santa Giuliana, vedova. 

 

8 FEBBRAIO

 

 

9 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/93186/93186.JPGBeato Luigi Magana Servin Laico e martire

 Arandas, Messico, 24 agosto 1902 – 9 febbraio 1928

Luis Magaña Servin nacque a Arandas, in Messico, il 24 agosto 1902. Vero cristiano non rinnegò mai le sue convinzioni. Fu membro attivo dell'Associazione cattolica della gioventù messicana e dal matrimonio con Elvira Camarena Méndez nacquero Gilberto e Maria Luisa, nata dopo la sua morte. Il 9 febbraio 1928, in piena persecuzione religiosa, un gruppo di soldati dell'esercito federale occupò il paese e ordinò che fossero arrestati i cattolici che simpatizzavano con la resistenza contro il Governo, fra i quali vi era proprio Luis Magaña Servin. Quando giunsero a casa sua, non lo trovarono ed allora catturarono il fratello più piccolo. Venutolo a sapere, Luis si sostituì al fratello venendo condannato a morte. Poco prima dell'esecuzione, esclamò: «Plotone che mi devi uccidere: desidero dirvi che da questo momento vi perdono e vi prometto che appena sarò alla presenza di Dio sarete i primi per i quali intercederò». È stato beatificato il 20 novembre 2005 da Benedetto XVI. (Avvenire)

 

Luis Magaña Servin nacque a Arandas il 24 agosto 1902. Fu un cristiano integro, sposo responsabile e sollecito. Mai rinnegò le sue convinzioni cristiane, anche nei momenti di prova e di persecuzione. Fu membro attivo dell’Associazione Cattolica della Gioventù Messicana (ACJM) e della arciconfraternita dell’Adorazione Notturna del Santissimo Sacramento, nella parrocchia di Arandas. Dal matrimonio con Elvira Camarena Méndez, celebrato il 6 gennaio 1926, nacquero il primogenito maschio Gilberto ed una figlia, Maria Luisa, nata dopo la morte del padre.

Il 9 febbraio 1928, in piena persecuzione religiosa, un gruppo di soldati dell’esercito federale occupò il paese di Arandas. Ordinò che fossero immediatamente arrestati i cattolici che simpatizzavano con la resistenza attiva contro il Governo, fra i quali vi era appunto Luis Magaña Servin. Quando giunsero a casa sua, non lo trovarono poiché si era rifugiato assai bene ed allora catturarono in cambio il fratello più piccolo. Venutolo a sapere, Luis si presentò dinanzi al generale chiedendo di potersi sostituire al fratello.

Affermò: “Io non sono mai stato un ribelle cristero come voi credete, ma se mi si accusa di essere cristiano, allora sì, lo sono, e se per questo devo essere ucciso, ben venga. Viva Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe!”. Senza indugi il militare decretò la sua morte. Poco prima dell’esecuzione, nell’atrio della chiesa parrocchiale, Luis chiese la parola e disse: “Plotone che mi devi uccidere: desidero dirvi che da questo momento vi perdono e vi prometto che appena sarò alla presenza di Dio sarete i primi per i quali intercederò. Viva Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe!”. Erano le ore 15 del 9 febbraio 1928.

Luis Magaña Servin è stato beatificato il 20 novembre 2005, sotto il pontificato di Benedetto XVI, insieme con altre vittime della medesima persecuzione.

Autore: Fabio Arduino

 

10 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/90624/90624A.JPGBeata Chiara Agolanti da Rimini Clarissa

 1280 - 1326

Chiara Agolanti nacque a Rimini nel 1280 in una famiglia molto ricca. Dopo una giovinezza dissipata, segnata anche da molteplici scandali, Chiara si convertì ed intraprese una vita di carità e di penitenza. Alla morte del secondo marito intensificò le sue penitenze fino alla decisione di formare una comunità di vita claustrale secondo la regola di Chiara di Assisi, con alcune donne che nel frattempo si erano unite a lei. Durante questo ultimo periodo della sua vita il Signore le fece dono di elevatissime grazie spirituali. Chiara Agolanti morì il 10 febbraio 1326. Gode del culto di Beata per antica tradizione.

Martirologio Romano: A Rimini, beata Chiara, vedova, che espiò con la penitenza, la mortificazione della carne e i digiuni la precedente vita dissoluta e, radunate delle compagne in un monastero, servì il Signore in spirito di umiltà.

Nel corso dei secoli, la vita di s. Maria Maddalena, come libertina e poi convertita e penitente, ha sempre avuto delle anime che si sono ritrovate, nel loro tempo, quasi nella stessa situazione, fra queste annoveriamo Chiara Agolanti.

Nata nel 1280 fu educata dal padre Onosdeo in modo molto forte nell’agire, quasi maschile e insofferente di ogni sottomissione. Passò la sua adolescenza cavalcando e giostrando, ribelle alle pratiche religiose che la madre Gaudiana cercava di inculcarle.

Morta la madre, il padre si risposò e lei divenne ancora più indipendente. Giovanissima sposò il figlio della matrigna ma rimase vedova dopo tre anni ereditando immense ricchezze. Per otto anni continuò a darsi alle feste, alle giostre cavalleresche, a conviti, con una vita frivola e mondana, dando adito in città a scandali e pessime dicerie.

Il padre e il fratello morirono lo stesso giorno mentre erano in guerra contro i Malatesta, per rivalità di dominio del territorio riminese, così che tutte le ricchezze della famiglia Agolanti si accentrarono nelle mani della giovane vedova.

Fu richiesta in sposa da un nobile che faceva anche lui una vita dissipata e lei acconsentì a patto che potesse continuare lo stesso modo di vivere. Un giorno per curiosità, entrò nella chiesa dei Padri Conventuali, s. Maria in Tribio e si sentì dentro di sé per la prima volta turbata e agitata, tornata a casa si rinchiuse nella sua stanza, dove gettatosi a terra ebbe un pianto dirotto di pentimento e decise allora di mutare vita.

Il giorno dopo si recò nella stessa chiesa ove si confessò in generale, da quel momento ricominciò un’esistenza di pietà, di opere buone, di penitenza, convertendo anche lo sposo, che due anni dopo morì in modo cristiano. A quel punto Chiara non pose più limiti alle sue penitenze che divennero terribili, animata da un fuoco d’espiazione che la divorava.

Con le sue immense ricchezze, prese ad aiutare tutte le miserie materiali e morali, dotò di dote ed assistenza tutte le ragazze povere da sposare. Alcune donne di grande fervore si riunirono intorno a lei disposte a fare una vita di clausura e di penitenza, Chiara fondò così un piccolo convento detto di s. Maria degli Angeli, poi successivamente detto di s. Chiara; ottenne la benedizione del vescovo di Rimini Guido Abasio, recandosi poi alla Chiesa Cattedrale per emettere i voti religiosi, secondo la Regola di s. Chiara.

Visse una decina d’anni come superiora, intensificando i sacrifici e la contemplazione della Passione di Cristo. Il Signore le concesse il dono di grazie mistiche elevatissime, con estasi così profonde che nessuna forza umana riusciva a farle sospendere e solo se le si portava davanti il ss. Sacramento si riprendeva.

Morì a 46 anni il 10 febbraio 1236, consumata dalle penitenze e dalla contemplazione; il suo corpo riposa nella chiesa del monastero.

Per antica tradizione gode del culto di Beata. Ricorrenza liturgica il 10 febbraio.

Autore: Antonio Borrelli

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Se qualcuno avesse ancora dei dubbi che per il Signore nulla è perduto e che per ciascuno c’è la possibilità di ricominciare una vita nuova, segua la vicenda singolare della beata Chiara Agolanti, che con l’omonima santa di Assisi ha ben poco da spartire, almeno per i primi tre quarti della sua vita. Di famiglia fiorentina, nata nella seconda metà del 1200 a Rimini, dove la famiglia è stata esiliata, è una bambina ribelle, anzi una scavezzacollo che la mamma fatica a controllare e ad educare a più civili modi di vivere. La morte della mamma, quando lei ha appena sette anni, le concede ancora più indipendenza, mentre il padre cerca inutilmente di educarla con uno stile marziale e rigoroso che aumenta ancor più il suo senso di ribellione. Poco più che bambina viene promessa al figlio della matrigna, che sposa appena adolescente. Il giovane marito muore appena tre anni dopo, lasciandola erede di un’immensa ricchezza, che Chiara non fatica a sperperare. Il lutto, infatti, non l’ha certo addolorata né depressa, se riesce subito a darsi alla pazza gioia, alle feste mondane, ai banchetti e alle giostre. Un comportamento il suo, che finisce sulla bocca di tutti i riminesi, scandalizzati dal suo peccaminoso stile di vita. Nemmeno la morte tragica, in combattimento e nello stesso giorno, del papà e del fratello riesce a scuoterla. Anzi, questo ulteriore lutto concentra nelle sue mani tutto l’ingente patrimonio di famiglia, permettendole di condurre una vita ancora più trasgressiva e facendola diventare uno dei migliori “partiti” della città. Incapace di ogni solido legame, accetta di sposare uno dei compagni delle sue quotidiane bravate, un discusso e chiacchierato “gentiluomo”, a patto di poter continuare la sua vita sregolata. A 34 anni un fatto insolito nello squallore della sua vita morale: una forza misteriosa ma irresistibile la obbliga un giorno ad entrare in una chiesa e a recitare un “Padre nostro” che ha il potere di cambiarle la vita. Dopo una notte insonne, ritorna il giorno dopo nella stessa chiesa, questa volta per confessarsi e per fare il proposito di cambiare vita. Tanto sregolata e trasgressiva prima, quanto risoluta e tenace adesso nel tener fede ai propositi fatti, coinvolge nella conversione anche il marito libertino, che cambia vita e muore due anni dopo, in pace con Dio e con se stesso. Chiara, adesso, ha tutto un suo mondo di poveri da aiutare, affamati da sfamare e malati da curare, cui dona tutti i suoi beni. Da ricchissima che era sceglie di bussare di casa in casa per elemosinare quelle che serve alla vita di un convento di clausura. Addirittura fonda un convento tutto suo, nel quale vive esperienze mistiche molto intense, a volte appena turbate dal rimorso dei peccati giovanili, cui cerca di rimediare con rigorosissime penitenze. Alla sua morte è subito circondata dalla venerazione e dalla simpatia della gente, che la sente vicina non solo nel comune sforzo di fedeltà a Dio, ma anche nell’umana debolezza che ha contraddistinto la sua vita. E’ festeggiata il 10 febbraio.

Autore: Gianpiero Pettiti

 

Beata Louise Poirier épouse Barré e 5 compagni Martiri

+ Avrillé, Francia, 10 febbraio 1794

Il 10 febbraio 1794, nel pieno della Rivoluzione francese, - Louise Poirier épouse Barré (nata a Le Longeron il 22 febbraio 1754, coniugata) subì il martirio insieme ad altri cinque laici della diocesi di Angers:

- Pierre Frémond (nato a Chaudefonds il 16 settembre 1754);

- Louise Bessay de la Voute (nata a Saint-Mars-des-Prés il 22 agosto 1721);

- Catherine du Verdier de la Sorinière (Saint-Pierre de Chemillé il 29 giugno 1758);

- Marie-Louise du Verdier de la Sorinière (nata a Saint-Pierre de Chemillé il 27 giugno 1765, sorella della precedente);

- Marie-Anne Hacher du Bois (nata a Jallais il 3 aprile 1765).

Papa Giovanni Paolo II ha beatificato questi martiri il 19 febbraio 1984.

Martirologio Romano: Ad Avrillé vicino ad Angers in Francia, beati Pietro Fremond e cinque compagne, martiri, fucilati durante la rivoluzione francese per la loro fedeltà alla Chiesa cattolica.

 

11 FEBBRAIO

Sant' Elisa (Eloisa, lat. Helvisa) Reclusa

Etimologia: Eloisa (come Luigi, di cui è femminile) = derivato da Clodoveo

Appartenente ad una nobile famiglia francese, Eloisa fu moglie del conte Ugo di Meulan, detto "Testa d'orsa", del quale però rimase ben presto vedova. Donna religiosissima e di grande pietà, donò una considerevole parte dei beni ereditati dal marito all'abbazia benedettina di Notre-Dame di Coulombs (presso Nogent-le-Roi, nella diocesi di Chartres), il cui abate Berengario ricevette da lei nel 1033 le due chiese parrocchiali di Lainville e di Montreuil-sur-Epte, con le relative rendite e metà delle terre annesse, come risulta dall'atto di cessione, confermato in quello stesso anno dal conte Galerano di Meulan, il quale aveva in feudo quelle chiese.

Perduto anche il secondo marito, Eloisa decise di rinunciare al mondo per sempre, ritirandosi a condurre vita religiosa nella stessa abbazia di Coulombs, a cui donò ancora, senza tener conto dei nipoti, figli del fratello Erluino, le terre e la chiesa di Anthieux, nella diocesi di Evreux, il cui possesso da parte dei monaci venne confermato da Guglielmo, duca di Normandia, solo nel 1066, allorché i beni furono restituiti all'abbazia da Riccardo, nipote di Eloisa, il quale li-aveva rivendicati, dopo la morte della zia, occupandoli con la forza.

A Coulombs Eloisa si fece costruire un'angusta celletta, a ridossa del muro della basilica, dove si rinchiuse per sempre, rimanendovi forse murata sino al giorno della sua morte, avvenuta in concetto di santità prima del 1060. Il Mabillon indica il 10 febbraio, festività di s. Scolastica, come giorno del suo felice transito, che avvenne in realtà l'8 gennaio, come chiaramente risulta dall'Obituario della cattedrale di Chartres, dove infatti si può leggere: "VI idus Januarii. Obiit Helvisa sanotissime memorie reclusa". Già nel sec. XVII si era persa ogni traccia della tomba di s. Eloisa, della quale, tuttavia, si conservava ancora il teschio tra le altre reliquie custodite nel tesoro dell'abbazia. La sua festa si celebra l'11 febbraio.

Autore: Niccolò Del Re     Fonte: Enciclopedia dei Santi

 

12 FEBBRAIO

Santi Martiri di Abitina fra cui San Saturnino con i 4 figli

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92140/92140.JPG † Cartagine, 304 d.C.

Martirologio Romano: A Cartagine, commemorazione dei santi martiri di Abitene, in Tunisia: durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, essendosi come di consueto radunati contro il divieto imperiale di celebrare l’Eucaristia domenicale, furono arrestati dai magistrati della colonia e dal presidio militare; condotti a Cartagine e interrogati dal proconsole Anulino, anche tra le torture tutti si professarono cristiani, dichiarando di non poter tralasciare la celebrazione del sacrificio del Signore; per questo versarono in diversi luoghi e tempi il loro beatissimo sangue.

Nel gran numero di martiri uccisi per la fede cristiana nell’Africa Settentrionale di 1700 anni fa, si annoverano anche 49 martiri cristiani di Abitina, comunità dell’Africa Proconsolare (Cartagine), dei quali ben 19 donne.

Dagli ‘Atti’ che furono anche ampliati da redattori non veritieri, si sa che al tempo dell’imperatore Diocleziano (243-313) il quale aveva emanato dei decreti restrittivi e poi di persecuzione vera e propria contro i cristiani, il vescovo Fundano della comunità di Abitina, aveva consegnato i libri sacri alle autorità locali, secondo gli ordini dell’imperatore.

Forse per questo gesto di accondiscendenza, i fedeli preferivano seguire il prete Saturnino nelle celebrazioni, nonostante il divieto ai cristiani di fare riunioni.

Queste assemblee si effettuavano nella casa di un cristiano di nome Felice, oppure in quella del lettore Emerito, a loro si aggregavano alcuni cristiani fuggiti da Cartagine.

Mentre una domenica celebravano l’Eucaristia, furono scoperti e condotti come prigionieri presso il tribunale della città; i magistrati ascoltata la loro confessione di essere cristiani e trovandoli colpevoli di riunione proibita dalle leggi, li inviarono a Cartagine presso il proconsole Anulino, perché non competenti per un processo.

Secondo s. Agostino, gli interrogatori davanti Anulino si svolsero il 12 febbraio 304, tutti furono fermi nell’affermare di essere cristiani e pertanto “non si può vivere senza celebrare il giorno del Signore” (domenica).

Gli ‘Atti’ riportano contradditori ed episodi di singoli martiri del gruppo, che per brevità non riportiamo. Anulino al termine della giornata impiegata per gli interrogatori e constatato la loro professione di fede cristiana, li fece rinchiudere in carcere.

Negli ‘Atti’ non è riportato come morirono, ma sembra che siano stati alcuni giustiziati, altri morti di fame e torture nel carcere, comunque in tempi diversi.

Si riporta l’elenco dei martiri di Abitina, la cui celebrazione è al 12 febbraio:

– Vittoriano 
– Vincenzo 
– Prima 
– Ceciliano 
– Restituta 
– Eva 
– Rogaziano 
– Giriale 
– Rogato 
– Pomponia 
– Seconda 
– Gennara 
– Saturnina 
– Martino 
– Danzio 
– Felice 
– Margherita 
– Maggiore 
– Onorata 
– Regiola 
– Vittorino 
– Pelusio 
– Fausto 
– Deciano 
– Matrona 
– Cecilia 
– Vittoria 
– Ercolina 
– Seconda 
– Matrona 
– Gennara. 
– Saturnino padre e prete

– Saturnino suo figlio omonimo, lettore

– Felice suo figlio, lettore

– Maria sua figlia, vergine consacrata

– Ilarione, suo figlio più giovane

– Emerito, lettore

– Ampelio, lettore

– Felice

– Rogaziano

– Quinto

– Massimiano

– Tecla

– Rogaziano

– Rogato

– Gennaro

– Cassiano

 

Autore: Antonio Borrelli

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92836/92836.JPGBeata Ombelina Badessa

 1092 circa – Jully-les-Nonnais, Francia, 1136 circa

La beata Ombelina, convertita dal fratello San Bernardo, abate di Chiaravalle, con il consenso del marito prese l’abito monastico e divenne badessa del monastero di Jully-les-Nonnais, in Francia. Il suo culto fu confermato nel 1703.

Etimologia: Ombelina = che ha piccola ombra, dal longobardo

Martirologio Romano: Nel monastero di Juilly nel territorio di Troyes in Francia, beata Ombelina, priora dello stesso cenobio, che, felicemente convertita dai piaceri del mondo ad opera di suo fratello san Bernardo abate di Chiaravalle, con il consenso del coniuge, si diede alla vita monastica.

La beata Ombelina, sorella del grande San Bernardo di Chiaravalle (Clairvaux), è conosciuta in particolare per i rapporti che intrattenne con il celebre fratello, immancabilmente narrati in tutte le “Vite” di Bernardo. Il legame tra loro, stretto ed affettuoso, è testimoniato dal dolore di Bernardo per la morte del fratello Beato Gerardo e della stessa Ombelina. Di un anno più giovane del fratello, pare gli assomigliasse quanto a bellezza fisica, ma probabilmente anche per il suo ruvido carattere. Convolo a nozze con Guido de Marcy, nobile della casa di Lorena.

Passato qualche tempo, ebbe occasione di far visita a Bernardo presso Clairvaux, ostentando con il suo abbigliamento e con la scorta il rango sociale a cui apparteneva. Bernardo si rifiutò di riceverla se ella non gli avesse promesso di seguire le sue raccomandazioni, cioè di fare ammenda per la propria vita, spogliandosi di ogni lusso. Scoppiata allora in lacrime, ella ebbe però la forza di rispondergli: “Io posso essere una peccatrice, ma è per quelli come me che Cristo è morto, ed è perché sono una peccatrice che ho bisogno dell’aiuto di uomini pii”.

Trascorso qualche anno, forse memore del rimprovero del fratello, Ombelina chiese ed ottenne dal marito il permesso di ritirarsi nel monastero di Jully-les-Nonnais, nei pressi di Troyes, del quale divenne infine badessa. Con innumerevoli mortificazioni decise di cancellare gli anni di vanità e di lusso. Morì verso il 1136 alla presenza di tre suoi fratelli: Bernardo, che la strinse fra le braccia, Andrea e Nivardo.

Il suo culto quale “beata” ricevette conferma ufficiale nel 1703 e la sua commemorazione, in precedenza prevista al 21 agosto, è fissata dal nuovo Martyrologium Romanum al 12 febbraio.

Autore: Fabio Arduino

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92849/92849C.JPGBeato Giacomo Fenn, sposo Sacerdote e martire

 + Tyburn, Inghilterra, 12 febbraio 1584

Emblema: Palma

Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, beati martiri Tommaso Hemmerford, Giacomo Fenn, Giovanni Nutter, Giovanni Munden e Giorgio Haydock, sacerdoti, che, essendosi la regina Elisabetta I arrogata il primato nelle questioni spirituali, per aver mantenuto la fedeltà alla Chiesa di Roma furono condannati a morte e a Tyburn sventrati ancora vivi.

James Fenn nacque a Montacute in Inghilterra. Studiò presso Corpus Christi College e Gloucester Hall dell’università di Oxford. Si sposò e divenne insegnante. Rimasto poi vedovo, intraprese gli studi religiosi nel collegio inglese di Reims in Francia e venne ordinato sacerdote nel 1580.

Thomas Hemerford nacque nel Dorsetshire in Inghilterra. Studiò ad Oxford e, convertitosi al cattolicesimo, intraprese poi gli studi religiosi nell’English College di Roma. Qui fu ordinato sacerdote nel 1583 e fece poi ritorno in patria.

John Nutter, fratello del beato Robert Nutter, nacque a Burnley in Inghilterra. Studiò nel Saint John's College di Cambridge, per poi intraprendere gli studi religiosi nel collegio inglese di Reims in Francia. Fu ordinato sacerdote nel 1581.

John Munden nacque a Coltley in Inghilterra. Studiò nel New College di Oxford, per poi intraprendere gli studi religiosi nel collegio inglese di Reims in Francia. Fu ordinato sacerdote nel 1582.

La loro normale vita di sacerdoti religiosi si inserì nel tragico contesto della persecuzione perpetrata ai danni della Chiesa Cattolica da parte dei monarchi inglesi. In quel periodo infatti la regina Elisabetta I, pretendendo per sé la sovranità anche in ambito spirituale, condannò a morte per la loro fedeltà al Romano Pontefice parecchi cattolici, tra i quali appunto i sacerdoti gesuiti Thomas Hemerford, John Nutter, James Fenn e John Munden, insieme anche con George Haydock, sacerdote del vicariato apostolico di Inghilterra. Tutti insieme furono squartati vivi a Tyburn, presso Londra, il 12 febbraio 1584. Questi gloriosi martiri vennero beatificati il 15 dicembre 1929 da papa Pio XI ed il Martyrologium Romanum li commemora ancora oggi nell’anniversario della nascita al cielo.

Autore: Fabio Arduino

 

13 FEBBRAIO

San Simeone Stefano Nemanja Re serbo

Ribnica, Serbia, 1114 – Hilandar, Grecia, 13 febbraio 1200

Lo zupan serbo Stefano Nemanja, governò il suo paese guidandolo all’integrità della vera fede ed ornandolo di numerosi monasteri. Entrò infine in quello di Studenica, abdicando in favore di suo figlio  Santo Stefano “primo incoronato” e raggiungendo poi il celebre ultimogenito San Saba presso il Monte Athos. Qui dalle rovine di Hilandar i due crearono un nuovo centro spirituale per il popolo serbo ed infine http://www.santiebeati.it/immagini/Original/81600/81600.JPGSimeone vi morì. La sua salma prese ad emanare un profumo soave che gli valse il soprannome di Simeone il Mirovlita.

Emblema: Modellino monastero

Stefano Zavidovic Nemanja nacque nel 1114 presso Ribnica, vicino all’odierna Podgorica, nel territorio di Zeta, una delle regioni originarie della Serbia. Era l’ultimo dei quattro figli dello zupan Zavida, sovrano della Raska, l’altra regione originaria della Serbia. Zavida era stato costretto dai fratelli ad allontanarsi dal principato e poiché la regione in cui aveva trovato rifugio era sotto la giurisdizione della Chiesa di Roma Stefano venne battezzato secondo il rito latino. Benché fosse il più giovane di quattro fratelli, si dimostrò “per grazia di Dio il più saggio e il più grande”. Fu allevato cristianamente dai familiari e ricevette un’ottima educazione per quei tempi. Eccellente in tutte le discipline, rifulgeva specialmente nello studio della Scrittura e degli insegnamenti patristici. All’età di soli 15 anni divenne amministratore delle regioni di Toplica, Ibar e Rasina, che resse sino al 1149 con abilità unita a pietà, tanto da stupire i governanti stranieri per la sua saggezza politica. L’imperatore bizantino Manuele I Comneno, in visita nel 1146 alla città di Nis, rimase tanto colpito dal giovane principe da onorarlo col grado di “sebastokrator” (autocrate) e concedergli, in segno di pace e amicizia, Glubocica (Metohija): “Questa è per voi e i vostri discendenti, per sempre; essa non sarà più divisa né con me, né con i miei parenti”. Nel 1149 morì il padre che nominò per testamento Stefano, pur essendo il figlio ultimogenito, sovrano di tutta la Raska. Gli altri tre fratelli, Tihomir, Miroslav e Strazimir, ebbero invece territori minori. Questo fatto scatenò naturalmente l’ira di questi ultimi e ciò costituì per Stefano una durissima esperienza.

Nel 1150, all’età di 36 anni, convolò a giuste nozze con la principessa Anna, bella figlia venticinquenne dell’imperatore bizantino Romano IV Diogene. Questo matrimonio parve essere predisposto dal Cielo e si rivelò un’unione di amore, pace e gioia, che servì anche a rafforzare i legami della Serbia con Bisanzio sia l’organizzazione della Chiesa Serba. Allo scopo di testimoniare al Signore affetto e gratitudine Stefano e Anna fecero edificare il monastero della Santa Vergine di Kursumlija, alla foce del fiume Kosanica, presso Toplica, che fu proclamato monastero principale della principessa Anna, quale gesto d’amore da parte di Stefano verso la consorte lontana dalla natia Costantinopoli. Ella ricevette in seguito la tonsura monastica proprio in tale monastero.

Nei primi anni del loro matrimonio nacquero i primi due figli: Vukan e Stefano “primo incoronato”. Per mostrare a Dio la sua riconoscenza, il sovrano fondò un nuovo monastero alla foce del fiume Banja, dedicato al patrono della famiglia San Nicola di Mira. Nel 1165 per volontà popolare Stefano divenne il “grande zupan di tutte le terre serbe” e scelse come capitale del suo regno la città di Ras, oggi presso Novi Pazar. I tre fratelli maggiori non erano però entusiasti della politica filo religiosa condotta da Stefano e nel 1167 decisero di muovergli guerra, lo catturarono e lo gettarono in prigione. Dopo aver reso grazie per aver potuto rendere testimonianza ai patimenti di Gesù, Stefano invocò il martire San Giorgio ed un angelo miracolosamente lo liberò ed egli poté mettersi in salvo. Informati dell’accaduto, i fratelli organizzarono le truppe e ripresero la guerra, ma il popolo serbo sostenne in pieno il santo zupan e, con l’aiuto di San Giorgio, travolse l’esercito nemico nella battaglia di Pantine (1168), permettendo così a Stefano di risalire sul trono di Ras. In ringraziamento per la vittoria intraprese la costruzione di un monastero dedicato al megalomartire, noto col nome di “Djurdjevi Stubovi” (“Le colonne di san Giorgio”).

Desiderando ancora un figlio in età avanzata, Stefano ed Anna, proprio come Abramo e Sara nonché Zaccaria ed Elisabetta, elevarono preghiere salirono all’Onnipotente, che li benedisse con l’ultimo figlio, nato nel 1175, dopo 25 anni di matrimonio: Stefano ne aveva 61 e Anna 50. Il neonato fu battezzato con il nome di Rastko ed in seguito prese il nome religioso di Saba e divenne primo arcivescovo serbo. Dopo questo concepimento, Stefano e Anna non ebbero più alcun rapporto tra loro e, come avevano fatto voto, vissero in castità il resto dei loro giorni. Dopo la nascita di Rastko, inoltre, lo zupan Stefano diede prova di maggiore religiosità e devozione anche nel governare: come San Costantino il Grande, il celebre imperatore romano, anch’egli volle intraprendere la fondazione di uno stato cristiano, convocando nel 1186 un “sobor” (assemblea nazionale) nel monastero di San Nicola, alla foce del fiume Banja. Stefano vi convocò Eutimio, vescovo di Ras, i vari igumeni con i loro monaci, i sacerdoti, gli uomini di stato più anziani, i principi ed i voivodi asserendo: “Venite a vedere, padri e fratelli! Benché io sia l’ultimo dei miei fratelli, il Signore Dio e la sua santissima madre, la Theotokos, non hanno guardato all’uomo esteriore, ma hanno reso degno me, che credo nella Trinità consustanziale e indivisa, di proteggere quanto mi è stato affidato, il mio gregge, dai lacci perniciosi del diavolo. Non lo ritenevo possibile nel mio paese, e tuttavia sono venuto a sapere che ci sono uomini malvagi e bestemmiatori dello Spirito Santo, i quali - come l’eretico Ario in passato - dividono l’indivisa Trinità. Si deve mettere fine e proibire i loro insegnamenti, o le fondamenta della nostra nazione saranno minate e noi precipiteremo all’inferno con quegli empi”. Le decisioni del sobor in merito alla purificazione della retta fede del popolo serbo ebbero pieno successo nel giro di un quinquennio.

L’umile zupan Stefano Nemanja non amava accumulare beni terreni, ma piuttosto beneficiare con ingenti donazioni l’intera sua nazione e tutto il mondo cristiano. A sua perpetua memoria si limitò ad erigere il monastero di Studenica. Nel 1193 il suo figlio minore, Rastko, decise di abbandonare il palazzo reale di Ras per ritirarsi a vita monastica sul Monte Athos e provocò un forte impatto nell’esistenza di suo padre, che iniziò a meditare di donare anch’egli l’intera sua vita a Cristo per meglio guidare il suo popolo verso il Regno dei Cieli: nel 1196, dunque, Stefano Nemanja abdicò al trono per entrare nel monastero da lui stesso fondato, all’età di 82 anni, il 25 marzo 1196 festa dell’Annunciazione, assumendo il nome di Simeone. Il medesimo giorno ricevette la tonsura sua moglie Anna, più giovane di una dozzina d’anni, che, separandosi così dal marito, si ritirò nel monastero della Santissima Vergine Maria a Kursumlija, col nome di Anastasia. Prima di abdicare, lo zupan designò il secondogenito Stefano quale suo successore, e dopo soli diciotto mesi a Studenica fu invitato da Sava a raggiungerlo all’Athos. Così avvenne, ma ben presto Sava e Simeone iniziarono a coltivare il sogno di donare alla nazione serba un centro spirituale, che si concretizzò nella rifioritura del decadente monastero di Hilandar, sempre nei pressi dell’Athos. Nel 1199 fu pronta la nuova chiesa, ma il 7 febbraio 1200 il vecchio Simeone si ammalò e dopo soli sei giorni si spense nella venerazione generale, non prima di essersi congedato dall’amato figlio.

Le sue spoglie mortali furono collocate in una cripta lungo il muro sud della chiesa principale di Hilandar e subito il suo corpo, oltre a dare segni di incorruttibilità, iniziò ad emenare un soave profumo (detto “Myron”), che gli valse l’appellativo di “Simeone il Mirovlita” con è solitamente conosciuto nel mondo orientale. La sua cara moglie Anna-Anastasia non tardò a raggiungerlo nel riposo eterno il 21 giugno seguente. Nel 1204 Stefano, detto poi “primo incoronato”, richiese le reliquie del padre al fine di salvare la Serbia dalla lotta fratricida per il controllo politico del regno e suo fratello Sava si vide costretto a ritornare al monastero di Studenica. Sulla vecchia pietra tombale ad Hilandar crebbe un’enorme vite, i cui tralci e grappoli sino ad oggi hanno operato miracoli, specialmente in favore di coppie vittime di una presunta sterilità. I santi corpi di Simeone, della moglie e del figlio Stefano giacciono ancora attualmente nel monastero di Studenica. L’autorevole opera di Daniel Rogic “Santi della Chiesa ortodossa serba” censisce sia Simeone il Mirovlita che sua moglie quali “santi”, mentre la Biblioteca Sanctorum riporta solo il marito unendone i nomi religioso e civile: Simeone Stefano Nemanja. La sua ricorrenza liturgica è fissata al 13 febbraio, anniversario nella nascita al Cielo, e tra i cattolici è celebrata dalle comunità di rito bizantino.

Autore: Fabio Arduino

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/91886/91886C.JPGSanta Giuliana Laica venerata a Torino

 non è evidente che sia stata sposata, ma il suo stato di "laica" ed "educatrice" del piccolo Gaudenzio mi fa pensare ad una donna sposata... Se qualche Torinese riesce a farmi avere qualche notizia in più...

La figura di questa santa compare nelle vicende di alcuni santi piemontesi, nonostante non esistano prove documentarie o archeologiche che consentano di conoscerne nei particolari la vicenda umana. La sua persona emerge, infatti, più come quella simbolica della donna timorata di Dio, coraggiosa seppellitrice dei martiri e amorosa educatrice di futuri ecclesiastici, che non come quella di un personaggio dalle coordinate storiche spazio – temporali ben definite. Nella passio dei Santi martiri torinesi Avventore, Solutore ed Ottavio, Giuliana è presentata come una pia matrona cristiana di Ivrea che, avendo scoperto il corpo di Solutore, martirizzato sulla riva della Dora Riparia, lo trasporta a Torino per deporlo accanto a quello dei suoi due compagni uccisi in città, sul luogo fa edificare una memoria presso la quale anch’essa venne poi sepolta. E’ chiaro che in questo racconto la vicenda di Giuliana è inserita in un topos agiografico assai ricorrente: quello della donna coraggiosa che con i suoi mezzi procede all’onorevole sepoltura di coloro che hanno testimoniato la fede cristiana col sacrificio della propria vita. Alla santa gli agiografi medievali attribuirono anche un altro ruolo, quello di educatrice di Gaudenzio, futuro vescovo di Novara che, secondo il racconto tradizionale della sua vita, sarebbe stato originario proprio della città di Ivrea. Essa, prendendosi cura del piccolo Gaudenzio, avrebbe a lui trasmesso anche i primi insegnamenti della dottrina cristiana, ad insaputa dei suoi famigliari che nonostante i successivi sforzi del giovane, formatosi poi presso il cenobio eusebiano di Vercelli, non abbandonarono la religione pagana. Anche in questo secondo ruolo lei attribuito non si può rilevare nulla di storicamente attendibile da riferire alla persona di Giuliana, le cui reliquie sono ora conservate nella chiesa torinese dei Santi Martiri, trasportate dalla chiesa edificata dalla stessa santa e ingrandita nel tempo, con annesso monastero benedettino, abbattuta nel 1536 per ordine di Francesco I di Francia. Al di là della sua esistenza storica la duplice figura di Giuliana costituisce un richiamo all’importanza dell’opera svolta dalle donne nella diffusione del cristianesimo e nella formazione di una coscienza cristiana, dai tempi apostolici fino ai nostri giorni, concretizzata in ruoli e mansioni in cui esprimere al meglio la loro sensibilità femminile.

Autore: Damiano Pomi

 

14 FEBBRAIO

Beato Vincenzo Vilar David Padre di famiglia, martire

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92552/92552.JPG"probabilmente avrebbe meritato la gloria degli altari anche senza il martirio"...

Manises, Spagna, 28 giugno 1889 – Valencia, Spagna, 14 febbraio 1937

Il beato spagnolo Vincenzo Vilar David, laico, durante la persecuzione religiosa ospitò nella sua casa sacerdoti e religiose, e preferì morire piuttosto che rinnegare la fede di Cristo. Giovanni Paolo II lo beatificò il 1° ottobre 1995.

Martirologio Romano: A Valencia in Spagna, beato Vincenzo Vilar David, martire, che durante la persecuzione contro la religione accolse in casa sua sacerdoti e religiose e preferì morire piuttosto che rinnegare la fede.

Anche gli impresari vanno in paradiso. Soprattutto se nella conduzione della loro azienda e nel rapporto con gli operai riescono ad incarnare la dottrina sociale della Chiesa e sanno mettere al primo posto la solidarietà, la giustizia e la collaborazione. Un imprenditore salito alla gloria degli altari il 1° ottobre 1995 è Vincenzo Vilar David.

Nasce il 28 giugno 1889 in Spagna, nella provincia di Valenza, ultimo degli otto figli di una famiglia profondamente cristiana, proprietaria di una fabbrica di ceramiche che ha ormai acquistato fama internazionale. Allegro, estroverso, con una fede robusta che si traduce in concrete opere di carità, Vincenzo si laurea in Ingegneria industriale e dopo la morte prematura dei genitori, insieme a tre dei suoi fratelli si tuffa nella conduzione dell’azienda di famiglia e subito si distingue per il modo originale con cui la dirige. Nella sua fabbrica i rapporti sono guidati da un senso di giustizia e di solidarietà che permettono di superare contrasti e divisioni. Tratta i suoi dipendenti come veri amici, aiutandoli quando può, andandoli a trovare quando sono malati.

In fondo, Vincenzo altro non fa che seminare amore in ambito lavorativo come da sempre sta facendo nel gruppo dei suoi amici e tra i poveri della parrocchia. Che stia andando controcorrente lo dimostrano le contestazioni e le difficoltà incontrare sul suo cammino, che tuttavia non riescono a farlo indietreggiare di un millimetro dalle sue convinzioni e dal suo impegno: fermo e sereno, nonostante tutto, nelle misure da adottare a favore dei suoi operai, nel suo impegno per la catechesi parrocchiale dei giovani, nei vari circoli ed associazioni cui aderisce o che dirige. Non si tira indietro neanche davanti agli impegni amministrativi che gli sono proposti, e per sette anni è vicepresidente della Corporazione Municipale della sua città, lasciando l’esempio di persona integerrima che cerca il vero bene della sua gente.

A 33 anni si sposa con Isabella Rodes Reig, una ragazza che condivide i suoi ideali e il suo impegno e che da quel momento diventa la più valida collaboratrice della sua attività in parrocchia e delle sue opere di carità. Sul piano culturale è impegnato nella fondazione del “Patronato Parrocchiale di Azione Sociale” per l’educazione cattolica dei ragazzi: è il suo modo per contestare e contrastare l’azione antireligiosa che dall’inizio degli anni Trenta il governo spagnolo sta attuando. Allo scoppio della rivoluzione antireligiosa del 1936 Vincenzo è dunque una persona troppo in vista e troppo impegnata per passare inosservato. Ed è anche troppo coraggioso.

Diventa l’ombra del suo parroco, per aiutarlo e difenderlo fino a quando questi verrà assassinato; accoglie nella sua casa sacerdoti e religiosi cercando di salvare loro la vita; continua imperterrito nelle sue azioni di sempre, nonostante le minacce ed i più o meno espliciti “avvertimenti”. Inevitabile, dunque, l’arresto di un cristiano così impegnato e scomodo. Davanti al Tribunale, dove avrebbe la possibilità di rinnegare le sue convinzioni religiose per aver salva la vita, si dimostra tutto d’un pezzo, contento e sereno per come finora è vissuto e per cosa ha operato. Perdona i suoi persecutori proprio pochi istanti prima che questi lo finiscano a fucilate, il 14 febbraio 1937.

I suoi dipendenti chiudono la fabbrica per tre giorni in segno di lutto e resistono a tutte le pressioni delle autorità che ne vorrebbero l’immediata riapertura, perché, dicono, Vincenzo non era solo un impresario, ma un padre per ciascuno di loro. La sua beatificazione ha esaltato un “impresario santo”, che probabilmente avrebbe meritato la gloria degli altari anche senza il martirio, che tuttavia diventa il coronamento di una vita tutta impregnata di giustizia, di carità e di fede coraggiosamente vissuta.

Autore: Gianpiero Pettiti

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/40850/40850.JPGSan Valentino Martire

 Anche se non era sposato, non poteva mancare San Valentino patrono di tutti gli innamorati!!!14 febbraio

Patronato: Innamorati, Amanti

Etimologia: Valentino = che sta bene, sano, forte, robusto, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Palma

Martirologio Romano: A Roma sulla via Flaminia presso il ponte Milvio, san Valentino, martire.

La più antica notizia di S. Valentino è in un documento ufficiale della Chiesa dei secc.V-VI dove compare il suo anniversario di morte. Ancora nel sec. VIII un altro documento ci narra alcuni particolari del martirio: la tortura, la decapitazione notturna, la sepoltura ad opera dei discepoli Proculo, Efebo e Apollonio, successivo martirio di questi e loro sepoltura. Altri testi del sec. VI, raccontano che S. Valentino, cittadino e vescovo di Terni dal 197, divenuto famoso per la santità della sua vita, per la carità ed umiltà, per lo zelante apostolato e per i miracoli che fece, venne invitato a Roma da un certo Cratone, oratore greco e latino, perché gli guarisse il figlio infermo da alcuni anni. Guarito il giovane, lo convertì al cristianesimo insieme alla famiglia ed ai greci studiosi di lettere latine Proculo, Efebo e Apollonio, insieme al figlio del Prefetto della città. Imprigionato sotto l’Imperatore Aureliano fu decollato a Roma. Era il 14 febbraio 273. Il suo corpo fu trasportato a Terni al LXIII miglio della Via Flaminia. Fu tra i primi vescovi di Terni, consacrato da S. Feliciano vescovo di Foligno nel 197. Preceduto da S. Pellegrino e S. Antimo, fratello dei SS. Cosma e Damiano.

IL CULTO

S. Valentino fu sepolto in un’area cimiteriale nei pressi dell’attuale Basilica. E’ sicuro che quel cimitero già esisteva in età pagana. Da questa zona provengono alcuni reperti le più antiche risalgono ai secc. IV-V. Si tratta di titoli sepolcrali. Il pezzo più interessante è il sarcofago a “teste allineate” del sec.IV ora conservato in Palazzo Carrara. E’ il tradizionale sarcofago paleocristiano dove sono scolpite attorno alla figura del defunto orante, Scene della vita di Cristo. La prima basilica fu costruita nel sec.IV dato che la collocazione dell’edificio, fuori delle mura della città e in area cimiteriale e sopra la tomba del martire. Distrutta dai Goti, insieme alla città nel sec. VI, sarebbe stata ricostruita nel sec.VII. A conferma di questa ultima costruzione fu il rinvenimento di una moneta di Eraclio del 641. Al periodo della prima costruzione o a quella della ricostruzione del sec.VII, dovrebbe risalire la cripta con l’altare ad arcosolio, cioè sotto una nicchia coperta da un arco e sopra la tomba del martire. Intorno al sec.VII la basilica fu affidata ai Benedettini. Nel 742 vi avvenne l’incontro storico tra il papa Zaccaria partito da Roma verso Terni e il vecchio re longobardo Liutprando. La scelta della Basilica di S. Valentino fu fatta dal re perché all’interno di quella si veneravano le spoglie del glorioso martire alle quali egli attribuiva un valore taumaturgico. Da quell’incontro il re donava al pontefice alcune città italiane tra le quali Sutri.

Qui il pontefice ordinò il nuovo vescovo di Terni alla cui morte (760) la città rimase priva del pastore fino al 1218. In questo periodo la basilica fu oggetto di scorrerie prima di Ungari poi Normanni e Saraceni poi degli abitanti di Narni che vantavano pretese su alcuni territori e sulla Basilica. Onorio III nel 1219 vi si recò e consegnò la Basilica al clero locale. Da questo anno in poi non sappiamo più nulla dello stato di conservazione della Basilica. Agli inizi del 1600 doveva apparire fatiscente.

LA RICOGNIZIONE

Nel 1605 il vescovo Giovanni Antonio Onorati, ottenuto il permesso da papa Paolo V, fece iniziare le ricerche del corpo del Santo. Erano partite da tempo anche a Roma le ricerche dei primi martiri della Chiesa e per autenticare la loro esistenza e per accrescerne la venerazione. Il corpo di S. Valentino fu presto rinvenuto in una cassa di piombo contenuta entro un’urna di marmo rozza esternamente ma all’interno intagliata con rilievi. La testa era separata dal busto a conferma della morte avvenuta per decapitazione. Fu portata subito in Cattedrale. Nessuno in città voleva che il corpo del loro martire riposasse nella chiesa madre. Neanche la Congregazione dei Riti era favorevole poiché le reliquie dovevano essere venerate là dove erano state sepolte. Così si decise di ricostruire una nuova Basilica.

LA NUOVA BASILICA

I lavori per la costruzione della Basilica iniziarono nel 1606 e durarono alcuni anni ma già dal 1609 questa poté essere officiata dai PP. Carmelitani, chiamati a custodirla. Nel 1618 il corpo del santo vescovo e martire venne solennemente riportato nella sua Basilica. Nel 1625 l’Arciduca Leopoldo d’Austria, diretto a Roma, fece visita alla Basilica e si assunse la spese per la costruzione di un nuovo altare maggiore in marmo, completato nel 1632, impegnandosi a rendere alla Basilica una parte del cranio del Santo donata alcuni secoli prima ad un suo antenato. Dietro all’altare maggiore è il coro con la “confessione” di S. Valentino, un altare costruito sopra la tomba del martire. Al centro è una tela ovale che ricorda il martirio del santo, opera della fine del sec. XVII. L’episodio del Duca Leopoldo fornì l’occasione per un radicale rinnovamento dell’architettura del tempio, condotto a termine grazie anche all’opera di molti ternani. La Basilica si presenta secondo uno schema caro ai teorici della Controriforma: grande navata unica con attorno cappelle laterali, due grandi cappelle costituiscono il transetto, presbiterio e dietro l’altare del martire con la “confessione”. La facciata del sec. XVII è animata da paraste, un grande portale sormontato da un finestrone. Le statue in stucco raffigurano in alto i santi patroni della città Valentino e Anastasio (+649) e sono state aggiunte nel sec. XIX. L’interno è animato da grandi paraste con capitelli in stile ionico con ghirlande. Queste sorreggono un architrave sporgente dentellato. Due cappelle per lato erano proprietà di alcune famiglie importanti della città. Le più interessanti sono le cappelle del transetto. Quella di destra è dedicata a S. Michele arcangelo ed era la cappella privata della famiglia Sciamanna. Ai lati infatti sono i monumenti funebri di alcuni membri tra i quali un certo Brunoro, vescovo di Caserta morto nel 1647. Al centro è la bella pala con S. Michele che sconfigge il demonio dell’artista romano Giuseppe Cesari detto il “Cavalier d’Arpino”. Esponente di una pittura colta e raffinata, docile alle richieste della Chiesa, che tornava a privilegiare chiarezza dell’espressione e il decoro nella rappresentazione delle figure sacre. Questa immagine è una chiara ripresa del classicismo di Raffaello: equilibrio della posa e fermezza dell’atteggiamento. L’altra cappella è dedicata alla santa carmelitana Teresa d’Avila. La bella pala centrale raffigura la Madonna con il Bambino tra i SS. Giuseppe e Teresa dell’artista Lucas De La Haye, monaco carmelitano della seconda metà del sec. XVII. L’artista fu l’incarico principale della decorazione della basilica. Infatti oltre a questa lascia altri capolavori tra i quali la bella pala centrale con S. Valentino chiede la protezione della Vergine su Terni e ancora una Adorazione dei pastori e una Adorazione dei Magi. Sempre per la basilica realizza le tele con i Quattro evangelisti e una serie con i Martiri ternani (Catulo, Saturnino, Lucio e magno discepoli di Valentino) conservati nella navata. Il suo stile è pienamente barocco: figure ricoperte di sontuosi panneggi che si agitano al vento, intrisi di un colore caldo che fa pensare anche ad un’influenza sull’artista della pittura veneta forse filtrata dal Rubens romano. Al centro del coro è una grande tela raffigurante la Crocifissione dove traspaiono figure intrise di grande drammaticità. Un ultimo capolavoro si può ammirare in una delle cappelle della navata. Si tratta di una tela raffigurante la Madonna con il Bambino ed i SS. Lorenzo, Giovanni Battista e Bartolomeo del 1635, opera di Andrea Polinori, cittadino di Todi. L’ispirazione dell’artista è il Caravaggio ma è abile a regolarizzarlo e depurarlo di ogni aggressività.

L’ambiente della cripta presenta l’antico altare ad arcosolio (inserito in una nicchia voltata a botte sopra la tomba del martire) nel quale furono rinvenute le reliquie di S. Valentino. Alcuni reperti dell’area valentiniana sono stati riuniti nell’ambiente accanto alla cripta.

 

LA LEGGENDA

La festa del vescovo e martire Valentino si riallaccia agli antichi festeggiamenti di Greci, Italici e Romani che si tenevano il 15 febbraio in onore del dio Pane, Fauno e Luperco. Questi festeggiamenti erano legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità. Divenuti troppo orridi e licenziosi, furono proibiti da Augusto e poi soppressi da Gelasio nel 494. La Chiesa cristianizzò quel rito pagano della fecondità anticipandolo al giorno 14 di febbraio attribuendo al martire ternano la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati indirizzati al matrimonio e ad un’unione allietata dai figli. Da questa vicenda sorsero alcune leggende. Le più interessanti sono quelle che dicono il santo martire amante delle rose, fiori profumati che regalava alle coppie di fidanzati per augurare loro un’unione felice. Oggi la festa di S. Valentino è celebrata ovunque come Santo dell’Amore. L’invito e la forza dell’amore che è racchiuso nel messaggio di S. Valentino deve essere considerato anche da altre angolazioni, oltre che dall’ormai esclusivo significato del rapporto tra uomo e donna. L’Amore è Dio stesso e caratterizza l’uomo, immagine di Dio. Nell’Amore risiede la solidarietà e la pace, l’unità della famiglia e dell’intera umanità.

GLI EVENTI

A Terni è sorta la “Fondazione S. Valentino”, che cura il culto del Santo durante l’intero mese di febbraio: vi sono programmate grandi iniziative di fede e di cultura, di arte e di scienza, di spettacolo e di divertimento. Da quest'anno è nata inoltre l'Associazione "San Valentino Festival" promossa da Comune, Provincia, Camera di Commercio, Diocesi, Sviluppumbria e Consorzio Cometa per organizzare eventi valentiniani anche nel resto dell'anno.

Fonte:  www.diocesi.terni.it

15 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/91069/91069.JPGSan Wilfrido (Walfredo) della Gherardesca Abate fondatore di Palazzolo

Veramente "particolare", ne consiglio la lettura, vista la brevità!

Pisa, VIII sec.

Walfredo, ritenuto il capostipite della famiglia della Gherardesca, dopo essersi sposato e aver avuto 5 figli, decise di ritirarsi a vita eremitica con due compagni, Forte proveniente dalla Corsica e Gundoaldo di Lucca. A Palazzolo, nell'alta val di Cornia, eressero un monastero intitolato a san Pietro chiamando un monaco da S. Vincenzo al Volturno per apprendere la regola benedettina. Successivamente fondarono nelle vicinanze anche un monastero per le loro spose e per quelle dei figli di Walfredo che avevano risolto di seguire il padre nella vita monastica. Uno di loro, però, Ginfrido, dopo essere stato ordinato prete, fuggì dal monastero e Walfredo gli profetizzò una punizione che lo colse con l'amputazione di una falange di un dito: Ginfrido pentito ritornò allora nel monastero distinguendosi per pietà, tanto che, alla morte del padre che era stato eletto primo abate, fu chiamato a succedergli.

Martirologio Romano: A Palazzolo in Toscana, san Valfredo, abate, che, dopo aver generato cinque figli, decise di condurre con la moglie vita monastica.

A leggere la ‘Vita ‘ di s. Walfrido della Gherardesca, non si può non rimanere stupiti di come molti secoli fa, si riusciva ad operare delle separazioni fra coniugi e sfaldamento delle famiglie, per raggiungere un ideale religioso da parte di uno o di tutti e due i coniugi, con la benedizione anche della Chiesa.

Walfrido nato a Pisa e vissuto nel secolo VIII, apparteneva alla nobile famiglia toscana della Gherardesca, che in seguito signoreggiò su Pisa nei secoli XII - XIII e il cui primo capo della signoria fu Ugolino della Gherardesca († 1289) la cui triste vicenda e morte fu narrata da Dante nella Divina Commedia.

Uomo di molte virtù, Walfrido si sposò ed ebbe cinque figli che educò cristianamente; in seguito raggiunto un accordo con la moglie, si ritirò sul Monteverdi in provincia di Pisa, insieme a due compagni: Forte nobile della Corsica e Guidoaldo di Lucca un suo parente, anch’egli sposato e con un figlio.

Condussero insieme vita eremitica attirando con la fama della loro austerità, anche altri discepoli. Nel luglio 754, egli eresse, con il permesso del vescovo di Pisa, il monastero di S. Pietro di Palazzuolo, ponendolo sotto la Regola di s. Benedetto; lo dotò di beni materiali, sottraendolo ad ogni ingerenza esterna; il tutto è documentato con Atti in copie del sec. XI.

Walfrido ne divenne il primo abate e quattro dei suoi figli lo seguirono come monaci. Ricevé la Regola e l’esempio della vita monastica da Magno, monaco venuto dal celebre monastero benedettino di S. Vincenzo al Volturno. Non poteva mancare il fondare da parte sua e dei monaci, di un altro monastero poco lontano da Palazzuolo, per le loro mogli che desideravano anch’esse condurre una vita monastica.

Non tutto filò liscio, il figlio Ginfrido già ordinato sacerdote, ebbe una crisi spirituale per cui lasciò il monastero. Walfrido, padre ed abate, arrabbiato diremmo oggi, minacciò un castigo ed infatti il fuggitivo, non si sa come, perse una falange di un dito.

Ginfrido colpito da questo fatto, ritornò convertito alla vita monastica, meritando per i suoi meriti successivi, di diventare abate alla morte del padre Walfrido, avvenuta il 15 febbraio 765.

Successivi miracoli e prodigi avvenuti sulla sua tomba e l’esempio delle sue virtù, fecero scaturire ben presto un culto fra i suoi monaci che si diffuse in tutta la regione. Culto che poi venne confermato con decreto del 12 settembre 1861 da papa Pio IX.

È ricordato nel Calendario Benedettino e nelle diocesi di Pisa e di Massa Marittima, il 15 febbraio.

Autore: Antonio Borrelli

 

16 FEBBRAIO

San Marciano Imperatore d’Oriente

 16 febbraio (Chiese Orientali)

Tracia, 390 – Costantinopoli, 26 gennaio 457

 

La sua pur dignitosa e retta personalità, è rimasta un po’ in ombra vicino alla grande figura della moglie, l’imperatrice santa Pulcheria (399-453).

Infatti, contrariamente agli altri imperatori bizantini, egli fu scelto come marito e associato come imperatore dalla ‘basilissa’, oggi diremmo come principe consorte, ma in realtà nell’impero bizantino i due sposi divenivano sovrani di pari grado con pieni poteri ciascuno; inoltre essendo sacra la figura dell’imperatore o dell’imperatrice esistente, tutte le sue scelte divenivano sacre automaticamente, quindi anche la sposa o lo sposo prescelto.

La basilissa Pulcheria, era la personalità più in vista dell’Impero sin da quando aveva 16 anni, perché reggente per il fratello minorenne Teodosio II (401-450) e del fratello divenuto poi imperatore, fu la guida e consigliera, anche quando si ritirò dal Palazzo imperiale.

 Subentrò al fratello, morto il 28 giugno 450 a 49 anni, a seguito di una caduta da cavallo, e forse adempiendo un’ultima richiesta di Teodosio II, Pulcheria che aveva ormai 51 anni e conduceva vita ritirata con voto di verginità fatto molti anni prima, decise il 25 agosto 450, d’introdurre a corte un ufficiale in congedo di 58 anni, il tribuno Marciano, che sposò dietro la promessa di rispettare la sua verginità.

Marciano, nato nel 390, era discendente di una famiglia poco nota della Tracia e per i suoi meriti e valore, fu nominato generale e senatore; la cerimonia d’incoronazione fu fastosa, con la presenza del patriarca Anatolio e fu il primo sovrano bizantino ad essere incoronato dal patriarca.

La sua attività di governo, affiancato alla moglie Pulcheria, fu indirizzata all’elevazione della dignità dell’impero; abolì la tassa che Bisanzio pagava agli Unni, alleggerendo così il carico fiscale sugli abitanti; la morte di Attila (453), liberò definitivamente l’impero da questi barbari invasori; ridusse il potere esagerato degli eunuchi, che specie con le imperatrici, erano diventati consiglieri influentissimi.

In definitiva, gli anni del suo regno furono anni di pace e di benessere; per il desiderio del papa s. Leone I, convocò il IV Concilio Ecumenico nel 451 a Calcedonia e durante le sessioni venne acclamato dai vescovi con le parole: “Molti anni al sacerdote, all’imperatore, maestro della fede”; fu personalmente presente al Concilio con la moglie Pulcheria e presiedette varie riunioni.

L’imperatrice Pulcheria, morì nel luglio 453, nel terzo anno del governo di Marciano, egli le sopravvisse, governando da solo, fino al 457 quando improvvisamente morì il 26 gennaio.

Ambedue furono sepolti nella Chiesa imperiale dei Santi Apostoli di Costantinopoli. Come per tutti gli imperatori e imperatrici, che avevano convocato dei Concili, la Chiesa d’Oriente lo ha riconosciuto come santo.

La sua celebrazione nella Chiesa Bizantina, era abbinata a quella di s. Pulcheria il 18 febbraio, successivamente fu spostata al 16 febbraio.

Autore: Antonio Borrelli

 

 

17 FEBBRAIO

San Pietro Yu Chong-nyul Padre di famiglia e Martire

Taphyen, Corea del Nord, 1837 – Pyongyang, Corea del Nord, 17 febbraio 1866

Padre di famiglia, fu canonizzato da Giovanni Paolo II il 6 maggio 1984.

Martirologio Romano: A Pyongyang in Corea, san Pietro Yu Chong-nyul, martire: padre di famiglia, mentre di notte leggeva il Vangelo ai fedeli radunati in casa del catechista, fu arrestato e, frustato a morte, morì per Cristo.

 

Beata Elisabetta Sanna Vedova, Terziaria francescana, membro dell’Un. dell’Apostolato Cattolico

Elisabetta Sanna da Codrongianos a settembre sarà beata  Codrongianos, Sassari, 23 aprile 1788 – Roma, 17 febbraio 1857

Elisabetta Sanna nacque a Codrongianos (Sassari) il 23 aprile 1788. A tre mesi perdette la capacità di sollevare le braccia. Sposata, allevò cinque figli. Nel 1825 restò vedova e fece voto di castità; era la madre spirituale delle ragazze e delle donne della sua terra. Nel 1831, imbarcatasi per un pellegrinaggio in Terra Santa, finì a Roma, e non poté tornare, per sopravvenuti gravi disturbi fisici. Si dedicò totalmente alla preghiera ed a servire i malati e i poveri. Fu tra i primi iscritti all’Unione dell’Apostolato Cattolico di san Vincenzo Pallotti, suo direttore spirituale. La sua abitazione divenne un santuario di viva fede e ardente Risultati immagini per beata elisabetta sannacarità. Morì a Roma il 17 febbraio 1857 e venne seppellita nella chiesa del SS. Salvatore in Onda. Dopo una causa durata oltre un secolo e mezzo, è stata beatificata il 17 settembre 2016 presso la basilica della Santissima Trinità di Saccargia a Codrongianos.

 

A Codrongianos (Sassari), il 23 aprile 1788, da una famiglia di agricoltori, ricca di fede e di figli, nasce Elisabetta Sanna. Nella sua casa si lavora, si prega, mai si nega l’elemosina ai poveri. Quando ha appena tre mesi, un’epidemia di vaiolo causa la morte di molti bambini ed anche lei ne viene colpita. Guarisce, ma rimane con le braccia leggermente storpie e le articolazioni alquanto irrigidite. Ciò non le impedisce di crescere, imparando a sopportare il suo handicap, come cosa naturale e a sbrigare al meglio le faccende domestiche, a presentarsi sempre ordinata e pulita.

Dalla famiglia, riceve il dono di un’intensa vita cristiana, fin da piccola, così che a sei anni riceve la Cresima, il 27 aprile 1794, da Mons. Della Torre, Arcivescovo di Sassari. Poco dopo, è affidata a una certa Lucia Pinna, terziaria francescana, assai attiva in parrocchia, animatrice di un gruppo di donne dedite all’adorazione eucaristica, al Rosario, al soccorso dei poveri: ogni giorno. Lucia, benché analfabeta, come quasi tutte le donne di quei tempi, è una singolare catechista in mezzo alle ragazze del borgo e della campagna. Alla sua scuola, Elisabetta impara a conoscere Gesù e a volergli bene.

 

Giovane catechista

Risultati immagini per beata elisabetta sannaA dieci anni, la prima Confessione e la prima Comunione. Frequenta il catechismo tenuto da Don Luigi Sanna, cugino del papà, e al catechismo porta le compagne, dicendo: «Dai, vieni che è bello». Ella stessa, giovanissima, pur non sapendo né leggere né scrivere, diventa piccola catechista. Un giorno, guardando il Crocifisso, sente una voce interiore che le dice: «Fatti coraggio e amami!».

Quindicenne, raduna le ragazze nei giorni festivi in casa sua e insegna loro la dottrina cristiana e a pregare con il Rosario. Suo fratello, Antonio Luigi – dal quale ha imparato a intensificare il culto alla Madonna – entra in Seminario a Sassari dove diventerà sacerdote. Elisabetta, rimanendo nel mondo si iscrive alla Confraternita del Rosario e a quella dello Scapolare del Carmelo. Una giovinezza serena, piena di lavoro, di colloquio con il Signore Gesù, di apostolato.

Vorrebbe farsi suora; sicuramente, essendo handicappata, non pensa a sposarsi, eppure, ventenne è cercata in sposa da giovani buoni. Così il 13 settembre 1807, a 19 anni, celebra il matrimonio con un certo Antonio, un vero buon cristiano di modeste condizioni. Una festa semplice e serena, un totale affidamento al Signore e alla Madonna, è l’inizio della loro vita coniugale. Antonio è un marito e padre esemplare che stravede per la sua sposa e le dà totale fiducia. Agli amici dice: «Mia moglie non è come le vostre, è una santa!». Elisabetta dirà: «Io non ero degna di tale marito, tanto era buono». La loro famiglia è modello per tutto il paese.

Negli anni che seguono, nascono sette figli. Ella passa le giornate tra la casa, impegnata nell’educazione dei figli e la campagna, dove lavora senza risparmiarsi. E trova anche il tempo per lunghe ore di preghiera in chiesa. Ella stessa prepara i suoi figli alla Confessione e alla Comunione e trasmette loro un grande amore a Gesù, con molta dolcezza, senza mai usare modi bruschi. Una vera educazione con il cuore. Non teme le critiche per la sua fede pubblicamente professata e vissuta: «Questo mio tenore di vita – risponde – non mi ha impedito di attendere ai miei doveri di madre di famiglia che compio oltre le mie forze».

Dei sette figli, due sono morti in tenerissima età. Nel gennaio 1825, il giorno 25, suo marito, Antonio, assistito da lei, muore in giovane età. Vedova con cinque figli, il più grande ha 17 anni, il più piccolo di appena tre, intensifica la sua vita di preghiera e di carità, senza mai trascurare i suoi doveri di madre e la sua famiglia procede con dignità e decoro.

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Monaca nel mondo

La sua casa diventa quasi un piccolo oratorio, dove, oltre ai suoi familiari, si riuniscono in preghiera i vicini di casa. Ella vive come una monaca nel mondo e così è chiamata con rispetto: “sa monga”.

In questi anni, compone in dialetto logudorese una bellissima lauda, che sarà cantata a lungo a Codrongianos: “Ti ho, Dio, in cuore e in mente, perché troppo mi hai amata. Viver non posso più lontana da Dio. Gesù è il cuor mio e io sono di Gesù”.

Nel 1829 arriva in paese il giovane vice-parroco, Don Giuseppe Valle, di nobile famiglia, di notevole ascendente sulle anime. Diventa il confessore e direttore spirituale della famiglia Sanna, in particolare di Elisabetta, che lui avendo appena 24 anni, chiama zia. Don Valle, viste le ottime disposizioni di Elisabetta, la invita alla Comunione molto frequente, le permette di portare il cilicio e le concede di emettere il voto di castità. La sua vita cristiana diventa davvero ardente. Gesù le chiede così di seguirlo più da vicino.

Elisabetta, pensa di andare allora in Palestina. Ma dove avrebbe sistemato i suoi figli, in quel tempo? Il buon prete le suggerisce di affidarli al fratello sacerdote, Don Antonio Luigi. Alla fine del giugno 1830, si imbarcano da Porto Torres per Genova: lì attendono dieci giorni la nave per Cipro. All’ultimo momento, però, Don Valle scopre di non avere il visto per l’Oriente.

Allora, con Elisabetta e un altro frate, decidono di dirigersi a Roma: «Anche Roma è terra Santa: ci sono le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, grandi santuari e poi c’è il Papa, Vicario di Gesù sulla terra. Più tardi, da là, se il Cielo vorrà, partiremo per la Palestina». Così il 23 luglio 1830, arrivano a Roma. Don Valle è assunto come cappellano all’ospedale Santo Spirito, dove si dedica ai malati con cuore di padre. Elisabetta Sanna si accomoda in un piccolissimo alloggio di due stanzette, di fronte alla chiesa di Santo Spirito, vicinissimo alla Basilica di San Pietro, proprio nel cuore della Cristianità.

 

Apostolato romano

Elisabetta conosce solo il dialetto e quindi non parla con nessuno. Solo con Dio nella preghiera e vive nella sua celletta, come un’eremita: visita chiese, partecipa alla Messa più volte al giorno, fa la carità ai poveri. Nel suo alloggio, due mesi dopo, accoglie Don Giuseppe Valle, come un figlio da curare. Il prete vi rimarrà fino al 1839, assistito da Elisabetta come da una madre.

Nel suo pellegrinare per le chiese di Roma, assetata di preghiera, Elisabetta si incontra, in San Pietro con il Maestro dei Penitenzieri, Padre Camillo Loria, che, ascoltata la sua confessione, le ordina di tornare in Sardegna. Ella è decisa ad obbedire, ma proprio in quel periodo di dubbio e di ansia sul da farsi, incontra nella chiesa di Sant’Agostino, un santo prete romano, Don Vincenzo Pallotti, dedito ad un proficuo vasto apostolato, in cui coinvolge numerosi laici, dando vita nel 1835 alla Società dell’Apostolato Cattolico.

Uomo di grande influenza sui religiosi e sui laici, ricco di un fascino singolare, Don Pallotti sarà canonizzato dal Santo Padre Giovanni XXIII nel gennaio 1963. Elisabetta è compresa e rasserenata da Don Vincenzo, che illuminato da Dio, vede la singolare missione a cui ella è chiamata nell’Urbe. Dirà: «Allora, mi quietai e dopo circa cinque anni che dimoravo a Roma, ebbi una lettera da mio fratello sacerdote che la mia famiglia era veramente lo specchio del paese e tutti ne erano edificati».

Davvero è il caso di dire che ognuno ha da Dio la sua vocazione, anche se qualche volta, può apparire difficile da comprendere.

Risultati immagini per beata elisabetta sannaMa i santi sanno percepire la volontà di Dio. Elisabetta si dedica al lavoro che le basta per vivere in povertà e letizia e occupa grandissima parte del suo tempo nella preghiera e nella contemplazione di Dio. Per qualche tempo, collabora nella casa di Mons. Giovanni Saglia, segretario della Congregazione dei Vescovi e futuro Cardinale. Diventa terziaria francescana e soprattutto si occupa, come prima collaboratrice, nell’unione Apostolato Cattolico, fondato da Don Pallotti. Ai suoi figli in Sardegna, fa donazione di tutto quanto possiede, lieta di vivere in perfetta povertà. Chi la avvicina, dirà di lei: «Vedeva Dio in tutto e lo adorava in tutte le cose.

L’amore di Dio era la sua vita. Ogni più grande interesse spariva di fronte all’interesse di Dio. Diceva spesso: Mio Dio, io vi amo sopra tutte le cose». Diventa nota a tutti la sua passione per l’adorazione eucaristica, specialmente per la Quarantore. Alla scuola di San Vincenzo Pallotti, cresce ancor più la sua devozione alla Madonna e la sua stanzetta, davanti a San Pietro diventa un piccolo santuario mariano dove si riunisce la gente a pregare con lei. Sembra che il cielo di Dio discenda in quella minuscola cella.

Risultati immagini per beata elisabetta sannaDai primi Pallottini, da numerosissimi romani che hanno modo di avvicinarla, è venerata come madre, anzi come santa. Lo stesso Don Pallotti la porta in grandissima stima e conduce i suoi figli spirituali ad ascoltare la sua parola.

 

La santa di San Pietro

Nel tempo della repubblica romana, quando il Papa Pio IX è esule a Gaeta e Roma è caduta nelle mani dei senza Dio, Elisabetta si dimostra di singolare fortezza, di fronte a coloro che la osteggiano: «Per chi preghi?», le domandano con ironia. «Per tutti!». «E anche per la repubblica?». Risponde: «Io non conosco questa persona!». Don Pallotti muore il 22 gennaio 1850, morte prevista da Elisabetta la quale ora è ancora più sola. Intensifica la sua preghiera e il suo apostolato. Ora è davvero la santa che ha conquistato il cuore dei romani per donarli a Gesù.

È ormai anziana e sofferente. Si è consumata come un cero che arde sull’altare. Il 17 febbraio 1857, con la morte dei santi, Elisabetta Sanna va incontro a Dio, dopo aver visto Don Pallotti e San Gaetano da Thiene, che vengono a prenderla per il Paradiso. Al suo funerale, la gente di Roma dirà: «È morta la santa di San Pietro».

Fu tanto il consenso popolare su di lei che, appena quattro mesi dopo la morte, fu nominato il postulatore della sua causa di beatificazione, durata oltre un secolo e mezzo. È stata dichiarata Venerabile il 27 gennaio 2014. Il miracolo che l’ha condotta finalmente sugli altari, approvato da papa Francesco il 21 gennaio 2016, è la guarigione, avvenuta nel 2008, di una ragazza brasiliana da un tumore che le paralizzava un braccio. È stata beatificata il 17 settembre 2016 presso la basilica della Santissima Trinità di Saccargia a Codrongianos.

Autore: Paolo Risso

 

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Risultati immagini per beata elisabetta sannaDa radio Vaticana:

E’ stata beatificata stamane (17 settembre 2016), in Sardegna, Elisabetta Sanna, sposa e madre di sette figli. Il rito è stato presieduto dal card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, nella Basilica della Santissima Trinità di Saccargia (nel comune di Codrongianos) in provincia di Sassari. "Mama Sanna", come viene affettuosamente chiamata, è vissuta a cavallo tra due secoli, il 1700 e il 1800: rimasta vedova, divenne terziaria professa dell'Ordine dei Minimi di San Francesco, del Sodalizio dell'Unione dell'Apostolato Cattolico fondato da San Vincenzo Pallotti.

Sulla sua figura ascoltiamo il cardinale Amato al microfono di Roberto Piermarini:

R. - Elisabetta, nata a Codrongianos (Sassari) il 23 aprile 1788, a sette anni fu vittima di una epidemia di vaiolo, che la rese invalida alle braccia, tanto che non riusciva a sollevarle per lavarsi la faccia o pettinarsi. Pur sentendosi attratta alla vita religiosa, seguì la volontà della madre, che la esortava a sposarsi. Il matrimonio fu celebrato il 13 settembre 1807 e la famiglia fu allietata da sette figli. Morto il marito nel 1825, Elisabetta continuò ad occuparsi dei suoi figli e ad amministrare i beni della sua famiglia facoltosa.

D. - Cosa dire della sua permanenza a Roma?

R. - Nel 1831 era partita per un pellegrinaggio in Terra Santa, per la mancanza del visto per l'Oriente, non riuscì a proseguire. Si fermò quindi a Roma, senza più fare ritorno in patria. Ma non potè tornare in Sardegna, su consiglio dei medici, perché gravemente sofferente di cuore. A Roma rimase 25 anni, lavorando, pregando e visitando i poveri e gli ammalati. Morì il 17 febbraio 1857. Aggiungiamo subito, soprattutto tenendo conto dell'odierna mentalità, che sorprende la vicenda di questo suo allontanamento dai figli. Ma a Roma riceveva notizie tranquillizzanti sulla loro crescita e formazione in casa del fratello sacerdote Don Antonio Luigi. Inoltre, san Vincenzo Pallotti la rassicurava continuamente dicendole: «Coraggio, figlia; la vostra famiglia non ha bisogno di voi; anzi, sarà la meraviglia e l'invidia di tutto il paese». Queste parole le davano una grande serenità di spirito. Era finalmente giunta a vivere la vocazione, avuta fin da piccola, di consacrarsi totalmente a Dio.

D. - Cosa pensa di tutto ciò?

R. - Dobbiamo ricordare la parola di Gesù che dice: «Se uno viene a me e non mi preferisce a suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino alla propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). È lungo l'elenco di coloro che hanno preso alla lettera la parola del Signore. Qui ricordo, come esempio, l'esperienza della suora orsolina francese, Santa Maria dell'Incarnazione, al secolo Marie Guyart (1599-1672), canonizzata da Papa Francesco nel 2014. Rimasta vedova giovanissima, affidò al collegio dei gesuiti il figlio Claudio per farsi religiosa. Il bambino, che all'inizio piangeva implorando il ritorno a casa della mamma, non solo non subì alcuna conseguenza psicologica nella sua crescita, ma divenne monaco benedettino e il più fervido ammiratore della madre, che, nel frattempo, era andata missionaria in Canada, pioniera dell'evangelizzazione in quelle terre. Lo stesso si può dire di Santa Giovanna Francesca Frémyot de Chantal (1572­1641), madre di sei figli. Rimasta vedova a ventinove anni, dopo un po' di tempo, il 29 marzo 1610, lasciò la famiglia per fondare le Visitandine e — dice la storia ­passò sul corpo del figlio Celso Benigno, di 14 anni, che si era disteso sulla soglia, implorando che non partisse.

D. - Si tratta, in ogni caso, di vocazioni speciali, rare e riservate a pochi. Immagino che siano scelte fondate su un fortissimo amore per Gesù...

R. - Esattamente. Gesù aveva conquistato totalmente il loro cuore. Per quanto riguarda Elisabetta Sanna, né la terra natia, né la famiglia, né le afflizioni della vita la separarono mai dalla carità di Dio. Venne da Dio l'ispirazione di andare in pellegrinaggio in Terra Santa e di rimanere per sempre a Roma. Non si trattò di un impulso arbitrario, ma di una vocazione seria, vagliata e approvata da padri spirituali saggi e prudenti, ai quali la Beata si affidava con obbedienza e umiltà. Di lei i testimoni affermano: «Iddio le era più caro di tutti i beni terreni messi insieme e di qualunque persona più diletta». L'amore di Dio le fece superare contrasti, dicerie, offese e soprattutto il peccato. Il male non fece breccia nel suo cuore, che rifuggiva il peccato come i bambini temono il buio. L'Eucaristia era l'approdo della sua anima, adoratrice Risultati immagini per beata elisabetta sannainstancabile del SS. Sacramento dell'altare. Da lei stessa apprendiamo che ascoltava anche cinque o sei messe al giorno.

D. - Quale fu il suo apostolato a Roma?

R. - Elisabetta era una donna di quotidiana adorazione eucaristica. Questo fervore spirituale lo riversava nell'amore del prossimo con un cuore aperto a tutti nel consiglio e nel servizio. A Roma era nota la sua disponibilità verso chi si rivolgeva a lei, nobili e plebei, amici e nemici, ricchi e poveri, romani e forestieri, grandi e piccoli. Con le sue parole metteva pace nelle famiglie e ristabiliva la concordia tra i coniugi. Un suo biografo scrive: «Aveva una grazia particolare per consolare gli afflitti, che, parlando con lei, sentivano tornare nei loro cuori pace e tranquillità. Inculcava a tutti carità e perdono dei torti ricevuti».

D. - Come possiamo definire la nuova beata Elisabetta Sanna?

R. - Elisabetta era la donna della misericordia. La sua vita fu una pratica continua delle opere di misericordia corporale e spirituale. Nonostante il freddo, la fatica del cammino e le braccia rattrappite, si recava all'ospedale san Giacomo o in case private per servire le ammalate. Delle elemosine che riceveva, toltone quel poco che serviva per il suo misero vitto, ne faceva elemosina agli altri. Non si turbava per gli insulti ricevuti. Non permetteva che si parlasse male del prossimo. Pregava e faceva pregare per i condannati a morte. Le opere di san Vincenzo Pallotti furono il principale destinatario della sua carità: per esse lavorava di maglia e cucito e ad esse mandava oggetti e denaro. Il Pallotti soleva dire che due erano i grandi benefattori dell'Istituto: una donna povera, Elisabetta Sanna, e il Cardinale Luigi Lambruschini (1776-1854). Alla sua morte, avvenuta il 19 febbraio 1857, nella sua stamberga nei pressi della Basilica Vaticana, la gente sussurrava: «È morta la Santa, la donna che stava sempre a pregare in S. Pietro».

Fonte: Radio Vaticana

 

18 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/41600/41600.JPGSanti Massimo, Claudio, Prepedigna, Alessandro e Cuzia Martiri di Ostia

 I Ss. Massimo e Claudio, fratelli, e Prepedigna, moglie di Claudio, con i figli Alessandro e Cuzia erano nobili romani che, sotto Diocleziano, furono arrestati e martirizzati tra le fiamme.

Etimologia: Claudio = zoppo, dal latino

Il Martirologio Romano li ricorda il 18 febbraio con un latercolo proveniente da Adone, il quale, a sua volta, prese i nomi dalla favolosa passio s. Susanna. In questo scritto si narra che Claudio fu incaricato dall'imperatore Diocleziano di chiedere come sposa per il proprio figlio Massimiano, sua nipote Susanna, figlia di Gabinio; recatosi dal fratello, Claudio fu convertito al Cristianesimo e sul suo esempio, abbracciarono la fede anche la moglie Prepedigna insieme con i figli Alessandro e Cuzia.

Dopo qualche tempo fu inviato da Gabinio, Massimo, fratello di Claudio, ma anche lui abbracciò la fede. 1 neo convertiti distribuirono i loro beni ai poveri e si diedero a praticare opere di carità. Quando Diocleziano ebbe notizia di ciò, li fece arrestare tutti e li esiliò ad Ostia, dove furono bruciati vivi e le loro ceneri furono gettate in mare.

Bisogna purtroppo dire che i nostri presunti martiri costituiscono un gruppo fittizio completamente inventato dal leggendista, sia per quanto riguarda la parentela tra di loro e con Diocleziano, sia per la loro storicità. Di Massimo e Claudio, infatti, non si conosce niente altro e nessuna fonte li ricorda; i nomi degli altri sono stati mesi dai latercoli del Martirologio Geronimiano del l° ottobre, ma per ciò stesso non hanno maggiore consistenza storica. Alessandro, difatti è un martire di Dinogetia nella Mesia, mentre Prepedigna e Cuzia sono il risultato di una fantastica lettura dei nomi Eoprepi e Dignaecotiae, diversamente troncati e poi riuniti in Prepedignae e Cotiae. In conclusione il latercolo deve essere espunto dal Martirologio. 

Autore: Agostino Amore     Fonte: Enciclopedia dei Santi

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/41490/41490.JPGSant'Angilberto di Centula Abate di Saint-Riquier

 750 - Saint-Riquier, Francia, 18 febbraio 814

Martirologio Romano: Nel monastero di Centule nel territorio di Amiens in Francia, sant’Angilberto, abate, che, abbandonati gli incarichi di palazzo e militari, con il consenso della moglie Berta, che prese lei pure il sacro velo, si ritirò a vita monastica e resse felicemente il cenobio di Centule.

Sant’Angilberto nacque verso il 750 da un ignoto signore della corte di Pipino il Breve, re dei Franchi e proprio a corte fu educato. Qui entrò presto in relazione con il principe ereditario, il futuro Carlo Magno, del quale divenne amico, confidente, consigliere e, a quanto pare, anche segretario. Quando nel 781 il piccolo Pipino, nipote del precedente,

di appena quattro anni, fu incoronato a Roma re d'Italia da Papa

Adriano I, Angilberto divenne l’addetto al regale fanciullo, con il

 titolo di primicerio di palazzo, nella cui veste egli poteva esercitare

 vaste funzioni in campo ecclesiastico e civile. Il santo dovette avere un ruolo importante nell'educazione del giovane principe, come pure nei rapporti tra lui ed i sudditi, ma anche tra lui e l’imperatore suo padre, e nel 787 si stabilì a corte. Incaricato poi di governare la regione inclusa tra la Schelda, la Senna ed il mare, fissò la sua dimora nel castello di Centula, nella Piccardia,

 non distante dall’abbazia fondata nel 625 da Saint Riquier, e continuò a mantenersi in corrispondenza con l’Accademia Palatina, eretta per volere di Carlo Magno dal benedettino inglese Alcuino, della quale fece parte con il nome di Omero e la illustrò con le sue poesie di sapore retorico. Angilberto fu amico di San Guglielmo d’Aquitania, San Benedetto d’Aniane e Sant’Adalardo. Egli corrispose in prosa ed in poesia anche con i sapienti del tempo, tra cui il suo professore di grammatica, Pietro da Pisa, e Teodulfo, vescovo di Orléans, teologo e poeta, uno dei principali esponenti della rinascita carolingia.

La vita di Angilberto, benché egli avesse ricevuto la tonsura, non era molto dissimile da quella degli altri cortigiani quanto a vizi e mondanità. Alcuino stesso ne rimase scandalizzato e non mancò di fargli le sue rimostranze. Angilberto però, anziché rinsavire, si innamorò della principessa Berta, figlia di Carlo Magno, dalla cui unione nacquero due figli, Armida e Nitardo, quest’ultimo storico ed abate di Saint-Riquier. Il sovrano, che quanto a moralità egli per primo non dava un grande esempio, non permise ai due amanti di sposarsi, ma in premio dei servizi che lo pseudogenerogli aveva reso nel campo amministrativo, gli concesse in commenda l’abbazia di Saint-Riquier. La nuova carica moltiplicò i suoi introiti, senza comunque interferire nella sua vita secolare. Con il tempo iniziò a nutrire una profonda venerazione verso San Richiero, dispensatore di potenti miracoli verso i devoti che accorrevano a venerarlo, e colpito da una grave malattia, pensò dunque di fare egli stesso un voto: se fosse guarito avrebbe intrapreso la vita religiosa nell’abbazia di cui egli stesso era già abate commendatario. La sua preghiera fu esaudita, ma non appena si ristabilì in forze fu impegnato nel difendere le sue terre dalle invasioni dei danesi. La grande vittoria che riportò su di loro, che attribuì nuovamente all’intercessione del santo, lo convinse a soddisfare il voto.

A Saint-Riquier-sur-Somme Angilberto divenne sacerdote ed edificò tutti i confratelli con la sua umiltà e l’esercizio della penitenza. Alla morte dell’abate Sinforiano, i monaci all’unanimità lo elessero abate, con la piena approvazione di Carlo Magno, anche se questi temendo che Angilberto potesse seppellire i suoi talenti nell'oscurità e nella solitudine del monastero, lo nominò suo arcicappellano e lo mandò tre volte a Roma dal papa in veste di suo ambasciatore. Nel 792 Angilberto condusse da papa Adriano I il vescovo di Urgel, Felice, condannato dal Concilio di Ratisbona perché, considerando che l’umanità assunta dal Verbo rende Gesù Cristo simile in tutto a noi, riduceva meramente ad un legame di adozione la paternità di Dio Padre nei confronti del Figlio. Nel 794 il sovrano si servì nuovamente di Angilberto per sottoporre al giudizio del pontefice i “Libri Carolingi”, ribadendo la condanna inflitta dal secondo concilio di Nicea nel 787 all’iconoclastia. Il nuovo papa, San Leone III, subito dopo l’elezione incaricò dei legati di portare a Carlo Magno le chiavi della confessione di San Pietro e lo stendardo della città di Roma, per testimoniargli come continuasse a considerarlo protettore della Chiesa e patrizio dei romani. Allo stesso tempo lo pregò di inviargli qualche suo cortigiano perché ricevesse in suo nome il giuramento di fedeltà e di sottomissione del popolo romano. Nel 796 Carlo inviò per una delicata missione ancora una volta Angilberto, che consegnò al papa buona parte dei tesori appena conquistati dall’esercito franco del duca friulano Errico, utili per restaurare ed abbellire le basiliche di Roma e il palazzo del Laterano, allora residenza pontificia.

Anche ad Angilberto spettò parte di quel tesoro ed egli se ne servì per ampliare ed arricchire la sua abbazia, nonché per dotarla di una biblioteca. Dopo l’ultima missione il santo si distaccò drasticamente dalla corte e dal mondo onde dedicarsi alla vita interiore, ristabilire innanzitutto con il suo esempio l’osservanza rigolosa della regola e curare la solennità delle celebrazioni liturgiche. Non a torto Angilberto fu considerato secondo fondatore di Saint-Riquier, poiché sotto il suo governo l’abbazia conobbe una nuova fioritura. Curò l’erezione di tre nuove chiese, che dedicò rispettivamente al Salvatore, a San Benedetto ed ai santi del suo ordine, e per l’occasione fece pervenire preziose reliquie da Roma, da Costantinopoli, da Gerusalemme e da altri santuari europei. Nell’800 il futuro imperatore Carlo Magno si recò con Alcuino a celebrare la Pasqua a Saint-Riquier ed il medesimo anno Angilberto seguì il sovrano a Roma per una difficile missione in difesa del papa: in riconoscimento all’aiuto ricevuto, la notte di Natale Leone III incoronò il re franco dando così origine al Sacro Romano Impero d’Occidente.

Angilberto approfittò dell’occasione per ottenere dal papa il rinnovo dei privilegi dell’abbazia e l’esenzione dalla giurisdizione episcopale di Amiens per tutti i suoi domini. Il santo abate costituì tre cori, composti da trecento religiosi e cento fanciulli, che cantassero perennemente l’ufficio divino nelle tre chiese per la salute di Carlo e la prosperità del suo regno. Prova tangibile dell’importanza che Angilberto rivestì al tempo di Carlo Magno è la presenza del suo nome fra i quattro firmatari del testamento dell’imperatore che avrebbero dovuto vigilare sull’esecuzione delle sue ultime volontà. Carlo morì il 28 gennaio 814, ma Angilberto non gli sopravvisse che ventidue giorni: consumato dai digiuni e dalle penitenze, spirò infatti a Saint-Riquier il 18 febbraio seguente e manifestò il desiderio di essere sepolto davanti alla porta principale della basilica conventuale, per essere calpestato da quanti si sarebbero recati nel tempio a pregare. La fama di santità che lo circondava spinse i monaci ad attivarsi per la sua canonizzazione, ma solo dopo tante peripezie nel 1100 papa Pasquale II poté esaudire la loro richiesta.

Autore: Fabio Arduino

 

Santi Giovanni Pietro Neel, Martino Wu Xuesheng, Giovanni Zhang Tianshen e Giovanni Chen Xianheng Martiri

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/41530/41530.JPG+ Kaiyang, Cina, 18 febbraio 1862

 Martirologio Romano: Nella città di Guizhou sempre in Cina, santo martire Giovanni Pietro Néel, sacerdote della Società per le Missioni Estere di Parigi, che, accusato di aver predicato la fede, legato alla coda di un cavallo e trascinato in una violenta corsa, colpito con ogni genere di scherni e di supplizi, morì alla fine decapitato. Con lui subirono il supplizio anche i santi martiri Martino Wu Xuesheng, catechista, Giovanni Zhang Tianshen, neofita, e Giovanni Chen Xianheng.

Jean-Pierre Néel fa parte della folta schiera di martiri che le Missioni Estere di Parigi hanno donato alla Chiesa, intenti nell’opera di evangelizzazione dei popoli asiatici non ancora cristiani. Questi nacque il 18 ottobre 1832 a Sainte-Catherine-sur-Riviere, nella diocesi di Lione. Manifestò ben presto ai genitori il desiderio di farsi sacerdote, sin dopo la prima comunione. Felice di questo suo desiderio, sua mamma lo mise nelle condizioni di poter apprendere le prime nozioni di latino presso il vicario d'Aubepin, per poi proseguire gli studi nei seminari di Montbrison ed Argentière. In entrambi i luoghi Jean-Pierre si rivelò, come testimoniarono unanimemente superiori e compagni, uno studente calmo e mite che faceva appena avvertire la sua presenza nella comunità. Durante gli anni di preparazione al sacerdozio il giovane ebbe l'ispirazione di farsi missionario e nel 1855 fece domanda di ammissione al seminario delle Missioni Estere di Parigi. La sua richiesta fu accolta e nel mese di ottobre partì dunque per la capitale francese.

Sua madre, che avrebbe preferito avere il figlio sacerdote in una parrocchia, alla notizia cadde gravemente malata, ma il figlio le scrisse in modo assai risoluto: “Mi ha fatto male il sapere che sei tuttora inconsolabile per la mia assenza... Povera madre! Quale follia ti ha dato alla testa? Tu, dunque, hai una troppo grande abbondanza, una troppo grande propensione di amore da non poterlo contenere: ma hai pure numerosi figli sui quali poterlo effondere. Possibile che sia tanto penosa la separazione momentanea da un figlio che il Signore t'ha richiesto per sé? Non torna questo utile a Lui come a te? E non ti accorgi che, cedendogli il figlio, tu fai un atto di carità? Se questo Dio, pieno di bontà, promette una ricompensa a chi saprà dare per amore suo un bicchiere d'acqua, quale ricompensa non devi riprometterti se saprai conformarti alla sua volontà?”. In un'altra lettera Jean-Pierre spiegò alla madre le profonde motivazioni che lo spingevano ad evangelizzare i popoli non ancora credenti: “Una sola di queste anime è più preziosa, è infinitamente più grande di tutto l'oro e di tutte le ricchezze della terra, perché tutte queste cose non sono costate a Dio che una parola, mentre quell'anima è costata le sofferenze e le ignominie della passione del suo diletto Figlio fino all'effusione di tutto il sangue”. Quando finalmente, nell'aprile del 1858, ricevette l’ordinazione presbiterale, scrisse ancora alla mamma: “Prega perché Iddio mi conceda di ben comprendere e perfettamente adempiere i numerosi e gravi doveri inerenti a questo santo e augusto ministero, almeno quanto è possibile alla fragilità umana. Prega perché mi riempia con abbondanza di virtù apostoliche; perché possa ottenere quello zelo che trasporta, quella carità che consuma e infiamma il cuore dell'apostolo per la salvezza delle anime e la gloria del nome di Gesù. Pregalo, infine, perché benedica questo tuo figlio adesso e durante tutta la laboriosa esistenza che si apre davanti a lui”.

Il 29 agosto dello stesso anno Padre Néel s'imbarcò a Bordeaux per la città cinese di Canton, ove giunse dopo ben sette mesi di navigazione. Con altri compagni raggiunse la regione del Kouy-tcheou, dopo molte soste e mille difficoltà derivanti dall’anarchia che regnava in Cina a causa della guerra scoppiata con la Francia. A Kouy-yang, capitale della provincia, Jean-Pierre studiò la lingua e gli usi cinesi con tale applicazione da meritarsi in breve tempo un distretto da evangelizzare. La sua dolcezza non tardò a conquistare l'animo sia dei credenti che dei non credenti. Nel dicembre 1861, monsignor Faurie, vicario apostolico della regione, inviò il Néel a visitare una famiglia di Kia-cha-long che i catechisti avevano preparata al battesimo. Giunto nella città, il missionario trovò numerose altre famiglie pronte a convertirsi ed un buon numero di donne desiderose di accostarsi al cattolicesimo. I neofiti salirono rapidamente ad una cinquantina, tanto che le autorità locali, allarmate, minacciarono di farli arrestare. Monsignor Faurie attestò infatti a tal proposito: “Il generale Tien-Ta-jen, aveva inviato una lettera segreta a tutti i mandarini della provincia, eccitandoli a massacrarci ovunque ci trovassero, considerandoci come dei capi di ribelli e non come europei: solo a questo patto essi si sarebbero fatti un merito dinanzi a lui e avrebbero ottenuto una promozione”.

Verso la metà di febbraio del 1862, alcune spie delle autorità civili iniziarono ad aggirarsi per le vie di Kia-cha-long ed il capo della guardia nazionale fece uccidere un neofita, ma queste purtroppo non erano che le prime avvisaglie di un’imminente persecuzione. Domenica 16 febbraio Padre Néel scrisse al proprio vescovo: “Dovevo mettermi in cammino domani per la capitale, ma ecco che il demonio viene a turbare la mia piccola stazione; io resto sul posto per sostenere i miei neofiti, il più anziano dei quali, Giovanni Tchang, mio ospite, è stato battezzato questa mattina”. Due giorni dopo, verso le quattro del pomeriggio, un centinaio di guardie nazionali agli ordini dei mandarini a cavallo, entrarono nel villaggio e circondarono improvvisamente la casa del neofita Giovanni Zhang Tianshen, ove oltre al missionario alloggiavano anche il catechista Martino Wu Xuesheng, catechista e Giovanni Chen Xianheng: tutti e quattro furono arrestati ed ammanettati. L’abitazione fu abbandonata al saccheggio ed il missionario, con i capelli legati alla coda di un cavallo, venne trascinato con gli altri tre prigionieri sino alla vicina città di Kay-tcheou.

Martino Wu Xuesheng era nato a Chuchangbo nel 1815 circa da genitori cristiani. All’età di vent'anni si era sposato, ma la moglie poi lo aveva abbandonato. Martino ricorse ad ogni mezzo possibile per ricondurla sulla retta via ma, non riuscendo nel suo intento, d'intesa con i missionari si separò definitivamente da lei per dedicarsi alla catechizzazione, alla diffusione di libri religiosi ed alla ricerca di bambini morenti per somministrare urgentemente loro il battesimo.

Giovanni Zhang Tianshen, nato nel 1805 a Kia-cha-long, era un piccolo commerciante. Sposatosi due volte, ebbe una quindicina di figli che morirono quasi tutti in tenera età. Colpito dunque negli affetti più cari, aveva scelto lo stato dei bonzi e in seguito aveva aderito alla setta dei digiunatori, finché finalmente un cristiano lo istruì nelle verità della fede cristiana ed egli, divenuto catecumeno, poté adoperarsi nel farle conoscere ai familiari ed agli amici.

Giovanni Chen Xianheng, nato da genitori pagani a Tchen-tou verso il 1820, all’età di trent'anni si era recato a Kouy-yang per affari di famiglia ed in seguito ad alcune conversazioni avute con i cristiani, decise di convertirsi. In principio prestò il suo servizio presso i missionari di Gan-chouen in qualità di farmacista e di battezzatore, ma in seguito fu inviato a Kia-cha-long in aiuto del Padre Néel.

Questi quattro integerrimi cristiani furono condotti a Kay-tcheou e subito sottoposti ad interrogatorio. Tra il mandarino ed il missionario francese si svolse questo serrato confronto: “Come ti chiami?” – “Qui mi chiamano Ouen: in francese il mio cognome è Néel”. – “Mettiti in ginocchio come gli altri” – “Non sono un cinese, sono venuto dalla Francia a predicare la religione, all'ombra del trattato concluso tra i nostri due imperi. Non m'inginocchierò perché sono un ospite e non un reo”. Un soldato colpì allora violentemente il sacerdote alle spalle con una sedia e questi cadde a terra, ma subito si risollevò sulle ginocchia per presentare il passaporto di cui era regolarmente munito. “Lo conosco, lo conosco!”, disse il mandarino, “Questo passaporto ti è stato rilasciato dal tuo governo e non dal nostro. Del resto, quello che importa è che rinunzi a questa religione sotto pena di morte”. – “Non ne parliamo neppure. Uccidetemi se vi piace”. – “Tra poco sarai esaudito. E voialtri, imbecilli, rinunziate alla vostra religione?” – “Mai, mai” risposero insieme gli altri tre prigionieri laici. Il mandarino redasse dunque questa laconica sentenza: “Ho scoperto una cospirazione prima che scoppiasse e ne ho punito di morte gli autori”. Mentre i condannati stavano per avviarsi al luogo dell'esecuzione pregando con le mani legate dietro la schiena, furono anche spogliati delle loro vesti. I parenti di Giovanni Zhang Tianshen gli si strinsero attorno per scongiurarlo di apostare, ma egli rispose loro: “II mio padre spirituale non teme la morte: io morrò con lui”. Il carnefice, dopo che alla luce delle torce di bambù aveva decapitato il missionario e i due catechisti, risparmiò quest’ultimo, nella speranza che le promesse di beni terreni fattegli dagli amici lo inducessero a ritrattare, ma invece egli rispose: “Io non desidero altro all'infuori dell'eredità eterna del cielo”. Subì così anch’egli la sorte dei compagni e le loro teste furono poi sospese in alto sui bastioni della città, mentre i loro corpi finirono in pasto alle bestie feroci.

La Chiesa non ha però dimenticato questi servi fedeli sino all’effusione del sangue: Giovanni Pietro Neel, Martino Wu Xuesheng, Giovanni Zhang Tianshen e Giovanni Chen Xianheng furono beatificati dal Papa San Pio X l’11 aprile 1909 ed infine canonizzati da Giovanni Paolo II il 1° ottobre 2000 insieme ad un gruppo complessivo di 120 martiri in Cina.

Autore: Fabio Arduino

 

19 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/41700/41700C.JPGBeato Corrado Confalonieri da Piacenza sposo, Eremita, Terziario francescano

 Piacenza, circa 1290 - Noto, Siracusa, 19 febbraio 1351

Nato a Piacenza nel 1290, era di nobili origini. Un giorno accusò un uomo innocente di un incendio appiccato da lui stesso durante una battuta di caccia. Di fronte alla condanna a morte per l'uomo accusato ingiustamente Corrado si mosse e pietà e ammise la sua responsabilità. Dopo aver pagato i danni causati si ritrovò in povertà. Assieme alla moglie vendette gli averi restanti e ne diede il ricavato ai poveri. Abbracciate la regola di Francesco e Chiara decisero di diventare religiosi. Corrado quindi divenuto terziario francescano si ritirò in eremitaggio. Dopo aver vagabondato in solitudine approdò all'isola di Malta. Da qui riprese il mare e giunse al porto di Palazzolo e da qui a Noto Antica. Giunto nella Val di Noto vi passò trent'anni, tra la preghiera, il servizio e il romitaggio. Gli si attribuiscono molti miracoli. Morì mentre era in preghiera, il 19 febbraio 1351. Gli è comunemente attribuito il titolo di santo. Così fa pure la Bibliotheca Sanctorum. Il Martyrologium Romanum, invece, lo qualifica come "beato".

Etimologia: Corrado = consigliere audace, dal tedesco

Martirologio Romano: A Noto in Sicilia, beato Corrado Confalonieri da Piacenza, eremita del Terz’Ordine di San Francesco, che, messi da parte gli svaghi mondani, praticò per circa quarant’anni un severissimo tenore di vita nell’orazione continua e nella penitenza.

Nato nel 1290 circa da nobile famiglia a Piacenza, Corrado Confalonieri viveva secondo il suo stato, fra divertimenti e onori. All’età di venticinque anni circa, mentre era sontuosamente a caccia, con servi, http://www.santiebeati.it/immagini/Original/41700/41700A.JPGcavalli, cani, furetti, falconi e astori, non riuscendo a stanare i conigli, fece appiccare il fuoco alla sterpaglia; l’incendio, alimentato dal vento, recò danni alle coltivazioni vicine e distrusse tutto. Non riuscendo a domarlo, tristemente se ne tornò a casa. Saputasi la cosa in città, le guardie di Galeazzo Visconti, signore di Piacenza, andarono sul luogo, e, trovato un uomo, credendolo colpevole, lo condussero in giudizio, dove fu condannato a morte, perché il danno era stato grandissimo. Corrado viene a conoscenza della ingiusta condanna, libera il malcapitato, affronta l’ira del Visconti, che, non potendolo condannare a morte perché nobile, lo priva dei suoi beni in città e fuori, riducendolo alla massima povertà. Corrado, spogliato delle ricchezze del mondo, decide di servire Dio.

Dopo avere raccomandati i servi a Dio, va a vivere in povertà fra un gruppo di religiosi; da essi viene accolto nell’Ordine e ammaestrato sulla via da seguire. Fatto un pellegrinaggio a Roma, se ne allontana e si reca in Sicilia, a Noto, nelle cui vicinanze resterà fino alla morte, in solitudine eremitica, senza tralasciare i contatti con gli abitanti del luogo. In un primo momento era vissuto alle Celle, presso Noto, con il beato Guglielmo Buccheri. Ma, poiché i Netini lo riverivano troppo, volle allontanarsi un poco, per maggiore solitudine.

La preghiera e il lavoro manuale sono la sua vita quotidiana, austera e parca nel cibo, tanto che le sue tentazioni sono soprattutto di gola; ma la sua perseveranza è fortissima e il diavolo, contro il quale combatte in continuazione, se ne torna sempre sconfitto.

Nella Vita beati Corradi, il più antico documento che abbiamo, scritta in dialetto siciliano da un anonimo verso la fine del Trecento, sembra di rileggere episodi e stile di vita come nei Fioretti di san Francesco e nelle Vitae Patrum (le vite degli antichi eremiti), oltre che nei Dialoghi di Gregorio Magno: aneddoti, miracoli, preghiera: anche gli uccelli si appoggiavano sulle sue spalle e sulle sue mani e cantavano dolcemente. Guarisce, con la preghiera e il segno della croce, un bambino ammalato di ernia: questo è il primo miracolo. La fama di fra Corrado diventa sempre maggiore, ma egli torna nella sua spelonca a lodare Dio, a cui umilmente attribuisce tutto il bene che opera. Lì è visitato dal vescovo di Siracusa, che ne riconosce la santità; al vescovo ed al suo seguito Corrado offre pane fresco, miracoloso, e, alla meraviglia del prelato, si dichiara peccatore aggiungendo che “Dio ha fatto questa cosa, per sua grazia”. Il santo, poi, andrà a Siracusa a parlare con il prelato, segno della sua venerazione per la gerarchia ecclesiastica, in un periodo in cui spesso i rapporti fra gli uomini di chiesa erano abbastanza turbolenti, specialmente per i problemi sulla povertà, che l’Ordine francescano aveva al suo interno e con la Curia papale ad Avignone.

Per accostarsi ai sacramenti della confessione e della comunione andava a Noto, dove c’era un prete suo devoto.

Nella Vita traspare anche la sua devozione verso la vergine Maria, come dimostra la preghiera, che il frate recita ad un suo amico e devoto, che gli aveva chiesto di insegnargli a pregare. Il suo saluto era l’evangelico e francescano (con molta probabilità il santo apparteneva al Terz’Ordine): “La pace sia con te”, oppure: “Cristo ti dia la pace”.

Dopo avere profetizzato prossima la morte, raccomandata l’anima a Dio, il santo muore, mentre ad Avola e a Noto le campane suonano da sole, annunciando così il glorioso trapasso. Gli abitanti delle due città accorrono per avere le reliquie; nello scontro, durissimo come una battaglia, grazie all’intervento miracoloso, nessuno resta ferito, nonostante le molte armi. Il fatto che il corpo di Corrado rimase fra i Netini dimostrò la volontà di Dio; fu perciò portato nella Chiesa Madre di Noto, dove fu seppellito. E nella Cattedrale barocca di Noto ancora oggi è conservato, in un’arca di argento di pregevole fattura, sulla cui sommità Cristo risorto è speranza e certezza di resurrezione per tutti.

Beatificato da Leone X nel 1515, Urbano VIII, nel 1625, concesse ai francescani di celebrarne la festa con Messa e Ufficio propri. Alcune notizie della sua vita, trasformate dalla leggenda, si sono imposte anche nell’iconografia, come il suo separarsi dalla sposa, che si fa monaca; nelle fonti però non c’è accenno a questo matrimonio. Generalmente il santo è rappresentato come un vecchio, che dimostra molto più dei suoi anni, con la barba fluente, vestito da francescano, davanti ad un crocifisso e con il bastone a tau.

Bibl.: F. Rotolo, Vita Beati Corradi. Testo siciliano del XIV-XV sec., Noto-Palermo, 1995.

Autore: Concetto Del Popolo

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http://www.santiebeati.it/immagini/Original/41700/41700B.JPG Nato nel 1290; morto tra il 1351 ed il 1354; il suo culto fu approvato con il titolo di Santo dal Papa Paolo III. Di nobile origine Corrado amò i divertimenti e la vita di corte.

Un giorno su ordine di Corrado, i suoi servi appiccarono il fuoco al sottobosco per stanare una preda che il loro signore desiderava uccidere. Il fuoco dei suoi servi divampò e ben presto investì l'intera zona e danneggiò diverse case. Incapaci di gestire il fuoco, Corrado ed i servi tornarono a casa e non proferirono parola su ciò che era accaduto. Un pover'uomo che si trovava in quelle zone a fare legna, fu accusato ingiustamente di aver appiccato il fuoco e fu condannato a morte. La coscienza di Corrado era profondamente turbata, ed egli preso da profondo rimorso confessò di essere il responsabile del fuoco, al fine di salvare la vita del disgraziato. I danni che dovette risarcire furono enormi, grandi infatti erano state le distruzioni apportate dall'incendio; Corrado e la sua sposa si impoverirono enormemente!

Ma questa profonda trasformazione aveva arricchito la sua spiritualità. Sembrò ad entrambi che il buon Dio li avesse chiamati all'abbandono di quella vita, tutta dedita ai piaceri di quel rango tanto potente. La coppia vendette gli averi restanti e ne diede il ricavo ai poveri del posto e abbracciate le regole di Francesco e Chiara decisero di diventare religiosi. Corrado quindi divenuto terziario francescano si ritirò in eremitaggio.

Da quel giorno la vita di Corrado cambiò, attratto dalla fede visse con grande austerità il resto della sua vita. Egli vagò per tanto tempo in solitudine e si trasferì in varie località, finché approdò nell’isola di Malta, dove ancora esiste la grotta chiamata di San Corrado. Dall'isola di Malta ripreso il mare giunse al porto di Palazzolo e da qui a Noto Antica.

Nel Capovalle arrivò tra il 1331 e il 1335, per poi scegliere un posto isolato per la sua scelta vita eremitica come raccontato dai suoi contemporanei, fino a quando arrivò nel Val di Noto, dove passò trent'anni della propria vita. Gran parte della sua attività nel territorio netino fu trascorsa al servizio dei malati presso l'Ospedale di San Martino a Noto Antica ma poi vista la crescente fama di santità ed il continuo numero di visitatori decise di allontanarsi dalla città; passando gli anni restanti in eremitaggio insieme ad un altro monaco anacoreta oggi santo: Guglielmo Buccheri (nobile netino).

Nella completa solitudine egli visse nella Grotta dei Pizzoni vicino Noto. Qui le sue preghiere rivolte a salvare gli uomini perduti, ad implorare grazie per i disastri, a soccorrere gli ammalati furono ascoltate da Dio ed a migliaia giungevano a lui da tutto il Vallo. Numerosi sono i miracoli che a lui si ascrivono uno dei più i importanti è quello che vide per protagonista il Vescovo di Siracusa. Durante i suoi viaggi per la Diocesi, il prelato decise di fare visita all'eremitaggio ( siamo alla fine della vita terrena di Corrado), gli attendenti del Vescovo stavano preparando le provvigioni per il ritorno quando il Vescovo, sorridendo, chiese a Corrado se avesse avuto qualcosa da offrire ai suoi ospiti. Corrado replico che sarebbe andato a vedere nella sua cella; egli tornò portando due pani appena sfornati, che il prelato accettò come miracolo! Corrado ricambiò la visita del vescovo, confessandolo, ed al ritorno lungo la strada egli fu circondato da uccelli cinguettanti che lo scortarono fino a Noto. Corrado morì mentre era in preghiera, il 19 Febbraio 1351, ed alla sua morte tutte le campane delle chiese netine per miracolo suonarono a festa.

Fu seppellito nella chiesa normanna di San Nicolò, dove la sua tomba fu contesa tra le due popolazioni di Noto e di Avola. Quasi immediatamente fu avviato il processo canonico di beatificazione, che si concluse molto tempo dopo con il Breve di Papa Leone X (12 luglio 1515), istituendone ufficialmente il culto, già presente da secoli. Fra le peculiarità da segnalare c'è la festa del Santo in Agosto che celebra proprio l'arrivo del Breve Papale e della prima processione avvenuta proprio in quella occasione (Libro Verde del comune di Noto).

Nell'arte Corrado e rappresentato come un eremita francescano ai piedi una croce, mentre la sua figura è circondata da uccelli. Talvolta il suo ritratto è riprodotto come un vecchio con la barba, piedi nudi, un bastone tra le mani ed un lungo mantello sulle spalle. Nei secoli le sue virtù taumaturgiche furono implorate ed invocate contro l'ernia.

Autore: Gaetano Malandrino

 

20 FEBBRAIO

 

 

21 FEBBRAIO

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92370/92370A.JPGSan Pipino il Vecchio (o di Landen)

"Pipino di Landen lasciò dunque dietro di sé una tale scia di santità tanto da essere considerato subito un santo pur senza essere stato ne monaco, ne prete, ne vescovo, bensì un semplice laico" bella figura di santo, magnifico esempio per noi oggi in piena crisi di personalità politiche capaci di svolgere un vero servizio per la cosa publica...

575 – Landen (Brabante, Belgio), 21 febbraio 640

Pipino di Landen, detto anche “il Vecchio”, duca di Brabante, nacque nel 575, figlio del principe Carlomanno e della principessa Ermengarda. Fu maestro di palazzo sotto i re di Francia Clotario II, Dagoberto I e Sigeberto II, esercitando questo grande incarico, un po' differente dall'autorità reale, con una rara prudenza. Si contraddistinse particolarmente per la sua fedeltà al re e per il suo amore per il popolo. Egli abbracciò con costanza ineguagliabile i giusti interessi dell'uno e dell'altro, senza temere di dover far torto ai diritti reali in favore del popolo. Con ammirabile equilibrio si prodigò nell'evitare che, usando come pretesto i diritti del re, si opprimesse e si prostrasse il popolo, preferendo così la volontà divina a quella umana, che proibisce di favorire i potenti a scapito dei deboli. Inoltre, era solito rendere al popolo ciò che secondo la giustizia gli spettava ed a Cesare solamente ciò che apparteneva legittimamente a Cesare. Associò a sé al potere Sant'Arnoldo, vescovo di Metz e poi suo con suocero: non faceva niente senza il suo consiglio, conoscendo la sua eminente virtù e la sua grande capacità nel governo dello stato. Alla morte di Arnoldo gli successe nell'amministrazione degli affari un altro grande santo, Cuniberto, arcivescovo di Colonia. Ciò può bastare a giudicare con quale ardore egli abbracciasse la giustizia in ogni sua sfaccettatura, scegliendo degli uomini così eccellenti ed incorruttibili per essere fedeli consiglieri di ogni sua azione.

Ma il re dei Franchi Clotario II non si limitò a mettergli tra le mani la prima carica dello stato, nominandolo maestro di palazzo, e decise dunque di onorarlo di tutta la sua confidenza donandogli tutto il potere che un grande ministro può sperare. Associato il suo figlio primogenito Dagoberto ad una parte della sua potenza e messolo in possesso del regno d'Austrasia, Clotario scelse nel 622 fra tutti i grandi della corte proprio Pinino, uomo ammirabile, per conferirgli interamente la guida del giovane neosovrano.

Pipino esercitò degnamente questa nuova carica, non dimenticando niente di ciò che poteva imprimere nello spirito di Dagoberto il timor di Dio e l'amore per la giustizia, mettendogli sovente davanti agli occhi queste belle parole del Vangelo: “Il trono di un re che rende giustizia ai poveri non sarà mai rovesciato”.

Fu proprio grazie alla prudenza di Pipino che Dagoberto I poté governare bene e fortunatamente, anche quando alla morte del padre ne ereditò il potere sugli altri stati del suo regno. La fazione di suo fratello Cariberto e di vari altri dissidenti fu presto dissipata grazie al valore di Pipino, che si dimostrò valoroso nella guerra, ma soprattutto giusto e saggio nella pace. Dagoberto, riservatosi esclusivamente i diritti che gli erano propri, si guadagnò il cuore di tutto il popolo per la sua libertà, la sua giustizia, la sua dolcezza e tutte le altre qualità degne di un grande re, eguagliando e sorpassando la reputazione dei più illustri dei suoi predecessori. Il suo regno fu uno dei più belli, essendo stato sempre guidato dai consigli di un santo ed abile maestro quale fu Pipino.

Ma, come niente è più difficile che conservare lo spirito puro nel mezzo della corruzione del secolo, ed il corpo casto tra i piaceri che accompagnavano la prosperità e la sovrana potenza, il re Dagoberto si tuffo ad un certo punto nella voluttà, facendo ricorso a metodi ingiusti per soddisfare le sue spese folli e disordinate. Il cuore di Pipino non poté che sentirsi trafitto dal dolore, lo riprese severamente e gli fece notare la sua ingratitudine verso Dio. Ma il giovane non sopportò i suoi rimproveri e meditò di ucciderlo, spinto anche da qualche cortigiano che odiava il santo ed invidiava la sua virtù. Ma Dio, che è il protettore dei giusti, liberò Pipino da questo pericolo. Il re comprese infine la giustezza delle sue rimostranze e tornò a manifestare più venerazione che mai nei suoi confronti. Per dargli una prova non equivoca pose tra le sue mani il suo figlio Sigeberto, che nel 633 inviò a regnare in Austrasia sotto la sua guida. Il giovane fu in realtà re solo di nome, poiché l'effettivo governo del regno fu in realtà completamente in mano a Pipino. Proprio in tale periodo l'Austrasia si trovò liberata dalle grandi incursioni dei barbari, repressi e confinati nel loro paese, che aveva subito sino ad allora. Dopo la morte del re Dagoberto I, Pipino avrebbe desiderato mettere Sigeberto II in possesso di tutti i suoi stati, se suo padre non lo avesse precedentemente obbligato ad accontentarsi dell'Austrasia ed a lasciare il regno di Francia a Clodoveo, figlio secondogenito.

La morte del santo duca Pipino, avvenuta il 21 febbraio 640 nel suo castello di Landen, nel Brabante, fece piombare l'intera Austrasia in una profonda afflizione, che lo pianse quale fosse stato uno dei suoi migliori re, ricordandone la sua vita impregnata di santità, la sua reputazione senza macchia, la sua saggezza e la sua condotta ammirabili. Egli fu sempre giustamente considerato quale protettore delle leggi, sostegno dei deboli, nemico delle divisioni, ornamento della corte, esempio per i grandi, guida dei re e padre della patria.

Il suo corpo, subito deposto nel luogo della morte, fu in seguito trasferito nel monastero di Nivelle.

E' da precisare che il personaggio in questione, Pipino di Landen, non è assolutamente da confondere con altri due suoi omonimi i cui nomi sono assai più celebri suoi nostri libri di storia: il primo è Pipino di Héristal, anch'egli maestro di palazzo e padre di Carlo Martello, mentre il secondo è Pipino il Breve, figlio appunto di Carlo Martello e primo re francese appartenente alla seconda dinastia, cioè quella poi definita carolingia. Il nostro santo, invece, più antico di entrambi, fu antenato di Pipino di Héristal tramite sua figlia Begga, che sposò il figlio del vescovo sant'Arnoldo, da quest'ultimo donatole per il bene della Francia ed il sostegno della sua grande ed illustre monarchia.

Si può dunque come constatare come la famiglia di Pipino sia stata una famiglia di grandi santi e sante. Sua moglie Itta, nome italianizzato in Ida, sorella dell'arcivescovo di Trèves san Modoaldo, dopo aver vissuto santamente la realtà matrimoniale, si prodigò anche da vedova in ogni sorta di buone opere e ricevette il velo di benedettina del celebre monastero di Nivelles. Qui trascorse il resto dei suoi giorni, offrendo alle altre religiose un raro esempio di perfezione e di virtù. Alla sua morte anche il corpo di Pipino fu ricongiunto a lei in questo monastero da loro fondato. Ida è venerata come santa l'8 maggio.

Pipino e Ida possono dunque essere considerati i capostipiti della dinastia dei Pipinidi, detta poi “carolingia” in onore del primo Sacro Romano Imperatore Carlo Magno.

Dopo il primogenito Grimoldo, che successe al padre Pipino, nacquero due figlie

La primogenita, la grande ed illustre Santa Geltrude, ancora giovanissima dichiarò dinnanzi alla corte franca di scegliere la vita religiosa e di preferire l'obbedienza al Creatore piuttosto che l'autorità regia. Pare infatti che il re Dagoberto stesse ipotizzando un matrimonio con lei. Entrata nel monastero di Nivelles, ne venne eletta prima badessa all'età di appena vent'anni per le sue eccezionali qualità. Fu eminente in santità, a tal punto da poter essere considerata come uno dei più bei lumi della cristianità.

Sua sorella Santa Begga, invece, ebbe l'onore di essere la radice da cui nacque la seconda dinastia dei re di Francia, come già spiegato precedentemente.

Pipino di Landen lasciò dunque dietro di sé una tale scia di santità tanto da essere considerato subito un santo pur senza essere stato ne monaco, ne prete, ne vescovo, bensì un semplice laico. E' venerato il 21 febbraio, anniversario della sua nascita al cielo.

Autore: Fabio Arduino

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/42350/42350C.JPG

Sant'Eleonora Regina d'Inghilterra

 1222 - Amesbury, 25 giugno 1291

Nacque nel 1222 da Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, e da Beatrice di Savoia. Donna di grande pietà ed amante delle lettere, il 14 gennaio 1236 sposò a Canterbury il re Enrico III d'Inghilterra. Nella sua nuova residenza inglese fu seguita da un gran numero di parenti e connazionali, che abbandonarono la Provenza in cerca di fortuna. Esercitò una grande influenza, sia durante il regno di Enrico, sia nei primi anni del regno di suo figlio Edoardo I. Ritiratasi nell'abbazia benedettina di Amesbury, vi prese il velo il 3 luglio 1276 e lì visse poi sempre sino alla morte, avvenuta il 25 giugno 1291 in concetto di santità.

Etimologia: Eleonora = che ha pietà, dal greco; dimin. = Nora, Norina

In duemila anni di cristianesimo non sono purtroppo molti i fedeli laici ascesi alla gloria degli altari e tra questi la gran parte sono teste coronate di tutta Europa. Molte sovrane sono state acclamate sante dal loro popolo e la Chiesa ha ratificato il culto loro tributato. Esempi significativi sono le sante regine francesi Clotilde, Radegonda, Bianca, Giovanna e Batilde, nonché Matilde di Germania, Elisabetta del Portogallo, Margherita di Scozia, Gladys del Galles, Berta del Kent ed Etelburga di Northumbria. Quali beate sono venerate Beatrice de Suabia, Gisella d’Ungheria, Caterina di Borsnia ed Ildegarda di Kempten, consorte di Carlo Magno. Già nell’Antico Testamento troviamo la Regina Ester, oggi commemorata anche dal Martyrologium Romanum. Giovanni Paolo II ha dichiarato “patrona d’Europa” la regina Brigida di Svezia ed ha dichiarato sante le regine polacche Kinga ed Edvige. “Venerabili” sono state riconosciute dalla Chiesa Maria Clotilde di Borbone e Maria Cristina di Savoia, rispettivamente sovrane del Regno di Sardegna e delle Due Sicilie. Recentemente sono state introdotte le cause di canonizzazione anche per Isabella “la Cattolica”, celeberrima regina di Castiglia, ed Elena del Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III di Savoia.

Oggi è invece festeggiata Santa Eleonora, nelle cui vene per parte materna scorreva anche sangue sabaudo. Nata nel 1222, era infatti figlia di Beatrice di Savoia e Raimondo Berengario IV, conte di Provenza. Il nonno non era che il Beato Umberto III conte di Savoia, primo santo di Casa Savoia. Eleonora, donna di grande pietà ed amante delle lettere, il 14 gennaio 1236 a Canterbury convolò a nozze con il re Enrico III d’Inghilterra.

Nella sua nuova residenza inglese fu seguita da numerosi suoi parenti e connazionali, che abbandonarono la Provenza in cerca di maggior fortuna. Molti di essi, infatti, riuscirono con la sua intercessione ad occupare vari importanti uffici pubblici, ma il favoritismo di Eleonora nei loro riguardi suscitò contro di lei una grande impopolarità da parte dei sudditi inglesi. Questi insorsero nel 1261, costringendala a rifugiarsi nella torre di Londra. Allorché Enrico III fu fatto loro prigioniero nel 1264, durante la battaglia di Lewes, ad Eleonora non restò che fuggire nel continente, ove riunì un esercito con cui riuscì a far liberare il marito.

Tornata dunque in Inghilterra nel 1265, insieme al Legato Pontificio, Eleonora non mancò di esercitare una grande influenza, sia durante il regno di Enrico, sia nei primi anni del regno del figlio nato dalla loro unione, Edoardo I. Ritiratasi infine dalla vita pubblica, il 3 luglio 1276 prese il velo nell’abbazia benedettina di Amesbury, ove trascorse i suoi giorni sino alla morte, avvenuta il 25 giugno 1291 in concetto di santità.

E’ facile comprendere come la venerazione nei suoi confronti sia nata in modo particolare all’interno dell’ordine religioso di cui fece parte e comunque il suo culto non è mai stato ufficializzato dalla Chiesa. Nonostante ciò la festa di Santa Eleonora viene localmente celebrata al 21 febbraio.

Autore: Fabio Arduino

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22 FEBBRAIO

Santa Margherita da Cortona madre e Religiosa

 Una Santa "convivente" e ragazza madre! Veramente una bella figura di Santa, anche se non era "sposata" nel senso sacramentale, ho ritenuto ugualmente di inserirla...

Laviano, Perugia, 1247 – Cortona, Arezzo, 22 febbraio 1297

Nata a Laviano (Perugia) nel 1247, diciottenne va a convivere con un giovane nobile di Montepulciano, che non la sposa neppure quando nasce un figlio, e che muore assassinato nove anni dopo. (La tradizione racconta di un cagnolino che la guida a ritrovarlo cadavere, in un bosco). Allontanata dai parenti dell'uomo e dalla propria famiglia trova accoglienza a Cortona. Lavora come infermiera per le partorienti, educa il figlio, che si farà poi francescano, e si dedica agli ammalati poveri. Prende con sé alcune volontarie http://www.santiebeati.it/immagini/Original/31450/31450J.JPGche si chiameranno «Poverelle», promuove l'assistenza gratuita a domicilio, si fa aiutare da famiglie importanti e nel 1278 fonda l'ospedale della Misericordia. Vive un periodo da contemplativa e una domenica ricompare a Laviano, per raccontare in chiesa, durante la Messa, le sue vicende giovanili, e per chiedere perdono. A Cortona spesso la gente va da lei, nella cella presso la Rocca dove si è stabilita nel 1288: chiede il suo intervento nelle contese cittadine e nelle lotte con altre città. Nel 1289 Margherita è tra coloro che danno vita alla Confraternita delle Laudi. Morirà a Cortona nel 1297. (Avvenire)

Patronato: Prostitute pentite

Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino

Martirologio Romano: A Cortona in Toscana, santa Margherita, che, fortemente scossa dalla morte del suo amante, lavò con una salutare vita di penitenza le macchie della sua giovinezza e, accolta nel Terz’Ordine di san Francesco, si ritirò nella mirabile contemplazione delle realtà celesti, ricolmata da Dio con superiori carismi.

Nulla è perduto, se si ama davvero: si può così sintetizzare l’esperienza avventurosa e peccatrice di Santa Margherita da Cortona, che, proprio grazie all’amore, riesce a dare una svolta alla propria vita fino a raggiungere le vette del misticismo e della carità più pura ed illuminata. Nasce nel 1247 a Laviano, un paesino a mezza strada tra Montepulciano e Cortona, in una povera famiglia contadina. Orfana di mamma, viene allevata da una matrigna gelosa e bisbetica, in mezzo a maltrattamenti ed angherie. Bellissima e, per questo, ammirata e corteggiata, a 18 anni scappa di casa per realizzare il suo sogno d’amore con un giovane nobile di Montepulciano. Che le spalanca le porte del suo castello e la fa sua amante per nove anni, ma che non la sposa, nemmeno quando dalla loro unione nasce un figlio. Il giovanotto non doveva essere neppure uno stinco di santo, se è vero che muore assassinato e la leggenda narra che sia stato un cagnolino (con il quale viene comunemente raffigurata nelle immagini) ad aiutare Margherita a ritrovarne il cadavere. Ovvio che la famiglia di lui, all’indomani del funerale, la cacci sdegnosamente di casa e così Margherita, da un giorno all’altro, passa dalle agiatezze di una vita mondana e dispendiosa alle misere condizioni di una ragazza madre, senza un tetto e senza di che mangiare. Dato che neppure si può parlare di tornare a casa sua, da dove è già fuggita una volta e dove tutti si vergognano della sua vita peccaminosa, qualche biografo sostiene che Margherita arrivi a prostituirsi per sbarcare il lunario, e non ci sarebbe proprio di che stupirsi, viste le sue condizioni e l’assoluta mancanza di valori. Va a stabilirsi a Cortona, trovando una casa e un lavoro come ostetrica, e qui avviene la sua metamorfosi. Conquistata dall’ideale francescano, si dedica agli ammalati poveri, visitandoli e curandoli a domicilio, scoprendo in se stessa una volontà e un talento di organizzatrice che neppure lei sapeva di possedere. Raduna attorno a sé un gruppo di volontarie e insieme a loro organizza una rete fittissima di carità per chiunque ha bisogno di aiuto. Riesce a contagiare nel suo progetto caritativo le famiglie nobili della zona, che mettono a sua disposizione somme ingenti con le quali, già nel 1278; riesce ad aprire il primo ospedale per i poveri di Cortona. L’assistenza è assicurata dalla confraternita delle Poverelle e dai Mantellati, per la quale ha scritto gli Statuti di chiara impronta francescana ed alla quale, soprattutto, offre la testimonianza della sua vita interamente votata ai più deboli. Scende in piazza, quando è necessario, per pacificare gli animi e per rasserenare il turbolento clima politico del suo tempo, ma, soprattutto, Margherita si dedica ad una intensa preghiera e ad una grande penitenza, che la portano alle più alte vette della mistica, nella Rocca sopra Cortona, dove ha ricavato una piccola cella in cui vive gli ultimi anni in meditazione e solitudine. Qui l’ex concubina muore il 22 febbraio 1297, ad appena 50 anni. Ci vogliono più di 4 secoli prima che la Chiesa la proclami santa, nel 1728, ad opera di Benedetto XIII, e Margherita diventa così una gloria dell’Ordine Francescano e la patrona di Cortona, che da sette secoli custodisce il suo corpo incorrotto.

Autore: Gianpiero Pettiti

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Va a convivere diciottenne con un giovane nobile di Montepulciano, che non la sposa neppure quando nasce un figlio, e che muore assassinato nove anni dopo. (La tradizione racconta di un cagnolino che la guida a ritrovarlo cadavere, in un bosco). I parenti di lui la scacciano con il bambino; e Margherita non può neanche farsi riaccogliere nella casa paterna, dalla quale se n’è andata già una volta dopo aver litigato con la matrigna (ha perso la madre a otto anni). Ed è la città di Cortona che l’accoglie, conoscendo la sua situazione, perché lei ne parla subito a tutti.

Due nobildonne le danno alloggio, e un lavoro come infermiera per le partorienti. Lei provvede a fare educare il figlio (che si farà poi francescano) e dopo il lavoro si dedica agli ammalati poveri, con volontà e talento di organizzatrice: prende con sé alcune volontarie che si chiameranno “Poverelle”, promuove l’assistenza gratuita a domicilio, si fa aiutare da famiglie importanti e nel1278 fonda per i poveri l’ospedale della Misericordia. Guida le sue collaboratrici, e all’occorrenza è non soltanto infermiera ma anche cuoca e questuante; fa di tutto per chi non ha nulla, neppure la salute.

Ma questa efficiente realizzatrice ha poi una seconda vita, da contemplativa, è capace di evadere da tutto per meditare sulla Passione del Signore in solitudine e dura penitenza. Dorme su graticcio su tavole di legno, in una cella presso la chiesa di San Francesco. Le sue decisioni sono sempre radicali: una domenica ricompare nel suo paese nativo, a Laviano, per raccontare a tutti – in chiesa, durante la celebrazione eucaristica– le sue vicende giovanili, e per chiedere perdono.

Tra i suoi malati e le sue penitenze, Margherita è attenta pure alla vita pubblica della città che l’ha accolta e adottata. Viene spesso gente da lei, nella cella presso la Rocca dove si è stabilita nel 1288: si chiede il suo intervento per mettere pace nelle contese cittadine tra famiglie in lotta, tra guelfi e ghibellini, tra la gente di Cortona e il vescovo di Arezzo, Guglielmo degli Ubertini. Nelle evenienze più varie di vita pubblica e privata diventa un fatto naturale chiedere il suo intervento, raccomandarsi alle sue preghiere, sollecitare i suoi consigli. Nel 1289 Margherita è tra coloro che danno vita alla Confraternita delle Laudi; e anche in questo, nell’amore per il canto religioso popolare, si comporta da vera figlia spirituale di Francesco d’Assisi.

Trascorre gli ultimi anni in solitudine, già venerata come santa, sofferente nel fisico e «arricchita dal Signore con superiori carismi», come dirà di lei il “Martirologio romano”. Papa Benedetto XIII la proclama santa nel 1728. Le sue spoglie mortali si trovano nel santuario a lei dedicato in Cortona. Nei molti dipinti che illustrano la sua vita compare spesso la figura del cane, sua guida nel ritrovare il cadavere dell’uomo con il quale era fuggita.

Autore: Domenico Agasso    Fonte: Famiglia Cristiana           

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92541/92541.JPGBeata Maria di Gesù (Emilia d’Oultremont d’Hooghvorst) madre e Fondatrice

Wégimont, Liegi (Belgio), 11 ottobre 1818 – Firenze, 22 febbraio 1879

La beata belga Maria di Gesù (al secolo Emilia d’ Oultremont d’Hoogvorst), madre di quattro figli, rimasta vedova, senza venir meno ai suoi doveri materni, si dedicò alla fondazione ed alla guida della Congregazione delle Suore di Maria Riparatrice e, aiutata da Dio, superò parecchie sofferenze e si guadagnò la vita eterna. Giovanni Paolo II la beatificò il 12 ottobre 1997.

Martirologio Romano: A Firenze, beata Maria di Gesù (Emilia) d’Oultremont, che in Belgio, madre di quattro figli, rimasta vedova, senza per nulla trascurare i suoi doveri materni, si dedicò a fondare e guidare la Congregazione delle Suore di Maria Riparatrice e, confidando nell’aiuto divino, superate non poche difficoltà, concluse piamente il suo pellegrinaggio terreno mentre faceva ritorno in patria.

Il 23 dicembre 1993, fu riconosciuta l’eroicità delle sue virtù e a seguito dell’approvazione, in data 17 dicembre 1996, di un miracolo attribuito alla sua intercessione, la Venerabile Maria di Gesù d’Oultremont, vedova d’Hooghvorst, è stata proclamata Beata a Roma il 12 ottobre 1997, da papa Giovanni Paolo II.

Emilia d’Oultremont nacque a Wégimont, Liegi (Belgio) l’11 ottobre 1818, dal conte Emile d’Oultremont e dalla contessa Marie de Lierneux de Presles; ricevette una solida formazione umanistica e religiosa, che le diede un carattere energico, sia sul piano fisico (diventò un’ottima atleta) sia sul piano morale; la sua risolutezza ed energia, fu uno dei tratti fondamentali della sua personalità.

La devozione al Sacro Cuore, alla Vergine Maria e soprattutto all’Eucaristia, si radicarono nel su animo di fanciulla e caratterizzarono da quel momento in poi, lo sviluppo della sua spiritualità.

Rispettosa della volontà dei genitori, acconsentì di sposare un giovane dotato di qualità spirituali e religiose, Victor van der Linden, barone d’Hooghvorst; il matrimonio fu celebrato il 19 ottobre 1837 a Liegi.

I comuni ideali con il marito, fin dall’inizio le permisero di dedicarsi alla preghiera e alle opere di carità, vivendo con pienezza la vita di giovane sposa.

Dalla felice unione, nacquero quattro figli, due ragazze e due ragazzi; che allevò con amore facendoli crescere in un sereno e gioioso ambiente familiare.

Emilia d’Oultremont trovò nei Padri della Compagnia di Gesù una serie di guide spirituali, che la compresero e la guidarono nella sua ricerca di perfezione nell’amore di Dio.

Negli anni dal 1839 al 1846, in cui soggiornò lungamente a Roma, Emilia fu gratificata da particolari esperienze interiori, che la indirizzarono sempre più ad un amore totale verso Dio; a 24 anni quando aveva già due figli, mentre stava pregando nella cameretta di s. Ignazio di Loyola, presso la Chiesa del Gesù a Roma, ebbe la visione del santo fondatore dei Gesuiti, che con le Costituzioni dell’Ordine in mano, l’assicurò che un giorno avrebbe seguito le sue Regole.

Il 10 agosto 1847, colpito dalle febbri malariche, contratte durante una caccia nelle Paludi Pontine, morì ancora giovane, il marito barone Victor d’Hooghvorst. Sopportò questa prova con fede e rassegnazione, dedicandosi completamente ai suoi figli, ai poveri e ammalati e a diverse opere diocesane.

Nel contempo assisté i genitori sofferenti fino alla morte, sopravvenuta nel 1850 per la mamma e nel 1851 per il padre.

Dopo di ciò volle consacrarsi a Dio con il voto di castità, autorizzata dal suo padre spirituale; sentendosi sempre più portata verso la vita religiosa; si trasferì a Parigi con le due figlie, per essere più vicina agli altri due figli, studenti in un collegio dei Gesuiti.

Superando le obiezioni dei parenti, Emilia si orientò apertamente verso la vita religiosa e l’8 dicembre 1854, durante una lunga e intensa preghiera nella cappella del castello familiare di Bauffe, le fu rivelato dalla Madonna ciò che Dio attendeva da lei; la fondazione di una Congregazione votata alla riparazione degli oltraggi perpetrati contro il S.mo Sacramento.

Nel 1855 Emilia iniziò una prima forma di vita in comune, con alcune giovani riunite intorno a lei, che volevano anch’esse consacrarsi a Dio.

L’8 novembre 1855 furono poste le basi della nuova Istituzione e il 21 aveva inizio, sotto la direzione dei gesuiti padri Petit e Studer, il noviziato delle postulanti che si erano presentate; lo Studer, Padre Provinciale dei Gesuiti di Parigi, divenne poi il grande protettore della nuova fondazione.

L’avvio ufficiale della nuova Famiglia religiosa, ebbe luogo il 1° maggio 1857 a Strasburgo, con il nome di “Istituto di Maria Riparatrice”.

Emilia d’Oultremont, dovendosi occupare ancora dell’educazione dei figli, fu costretta a procrastinare il suo ingresso nel nuovo Istituto, anche se di fatto lo dirigeva.

Man mano sorsero le nuove Case dopo la prima di Strasburgo, a Liegi e a Maduré (India) dove nel 1859, Madre Maria di Gesù, come aveva preso a chiamarsi, inviò sette suore Riparatrici; nel maggio 1860 fece un pellegrinaggio a Loyola, in devozione a s. Ignazio, “il vero Padre della sua anima”.

Elaborò le Costituzioni; espresse in una celebre lettera alle suore, il 2 luglio 1862, lo spirito che doveva animare le religiose, un invito dinamico a fissare lo sguardo su Maria, per apprendere da lei il cammino tipico di una Riparatrice.

Desiderava che le sue religiose esprimessero il loro impegno nella Chiesa, con una presenza di semplicità e di servizio, attraverso la preghiera, l’adorazione del S.mo Sacramento esposto ogni giorno, gli Esercizi Spirituali di S. Ignazio, l’istruzione religiosa e altre opere secondo le necessità ed i luoghi; “restaurare nelle persone, con l’aiuto di Maria, l’immagine di Dio offuscata dal peccato”.

Sposatosi i due figli maschi, mentre le due figlie Olimpia e Margherita l’avevano seguita entrando nell’Istituto delle Riparatrici, madre Maria di Gesù poté entrare definitivamente nella sua Opera nel 1864; per la scelta delle sue figlie di farsi suore, fu accusata dai nobili parenti di averle influenzate; tutto ciò le procurò profonde sofferenze e incomprensioni.

Ma dovette subire anche l’atroce dolore per una madre, di vederle morire giovani dopo alcuni anni; Margherita morì il 23 gennaio 1867 per la tubercolosi e Olimpia, la maggiore, si ammalò gravemente, restando per lungo tempo inferma fino alla morte, avvenuta il 14 dicembre 1872.

Madre Maria di Gesù, dovette affrontare così anche un lungo periodo di stanchezza spirituale, che la portò talvolta anche alla disperazione; però ne seppe uscire rimanendo inalterata la sua fede e la devozione, senza trascurare la direzione dell’Istituzione.

Intanto la Famiglia religiosa di ‘Maria Riparatrice’, si diffondeva abbondantemente con altre Case aperte a Parigi, Tolosa, Londra, Tournai, nell’Isola di Reunion, Nantes, Bruxelles, Siviglia, Wexford, Le Mans, Liesse, Pau, Cordova.

Il 25 marzo 1873, ricevette una nuova temporanea approvazione dell’Istituto, la definitiva arriverà nel 1883 dopo la sua morte.

Trascorse gli ultimi anni, rasserenata nello spirito, ma vittima di grandi sofferenze fisiche e morali, sia nel campo familiare sia all’interno della stessa Istituzione.

Mentre si trovava di passaggio a Firenze, in casa del figlio Adrien, in attesa di proseguire per il Belgio, madre Maria di Gesù, morì il 22 febbraio 1879 a 59 anni di età; la sua tomba si trova nella Chiesa di Santa Croce e San Bartolomeo in via Lucchesi a Roma.

Autore: Antonio Borrelli

 

23 FEBBRAIO

Beata Raffaella Ybarra Sposa e madre Fondatrice

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/90907/90907A.JPG Bilbao, 16 gennaio 1843 - Bilbao, 23 febbraio 1900

Nasce da una facoltosa famiglia cattolica, il 16 gennaio 1843 a Bilbao in Spagna. A 18 anni sposa Giuseppe Vilallonga, ricco catalano e trascorre i primi quindici anni di matrimonio dedicandosi alla famiglia che comprende, oltre ai figli e al marito, i nipoti, i vecchi genitori e altri parenti. Sotto la direzione spirituale del gesuita Francesco di Sales Muruzábal e con il consenso del marito, fa voto di povertà, ubbidienza e castità, che conferma in modo perpetuo nel 1890, aggiungendo quello di abbracciare lo stato religioso, se le condizioni familiari lo avessero permesso. Fonda a Bilbao l'asilo della Sacra Famiglia, per assistere donne e fanciulli che arrivavano in città senza assistenza. Ma la sua opera principale è la fondazione dell'istituto «Religiose degli Angeli Custodi» per l'aiuto alle giovani abbandonate, che riceve l'approvazione diocesana l'11 marzo 1901 e qualche anno dopo quella definitiva della Santa Sede. Muore a Bilbao il 23 febbraio 1900. Viene beatificata da Giovanni Paolo II il 30 settembre 1984. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Bilbao nella Guascogna in Spagna, beata Raffaella Ybarra da Villalonga, che, madre di sette figli, con il consenso del coniuge, emise i voti religiosi e fondò l’Istituto delle Suore degli Angeli Custodi per tutelare le fanciulle e guidarle sulla via dei precetti del Signore.

Nacque in una facoltosa famiglia, il 16 gennaio 1843 a Bilbao in Spagna, i genitori Gabriele Maria Ybarra y Gutiérrez de Cabiedes e Rosaria de Arambarri y Mancebo, erano ferventi cattolici. Già ad undici anni, quando fece la Prima Comunione, dava segni di pietà straordinaria provando consolazioni spirituali e soffrendo nel meditare la Passione di Gesù.

A 18 anni andò sposa a Giuseppe Vilallonga catalano di ricca famiglia, trascorse i primi quindici anni di matrimonio, dedicandosi alla famiglia, che comprendeva oltre i figli e il marito, i nipoti da lei adottati, i vecchi genitori e altri parenti.

Sotto la direzione spirituale del gesuita Francesco di Sales Muruzábal e con il consenso del marito, fece i voti di povertà, ubbidienza e castità, che confermò in modo perpetuo nel 1890, aggiungendo quello di abbracciare lo stato religioso, se le condizioni familiari lo avessero permesso.

Essendo ricca, poté dar vita a molte opere di bene e di apostolato. Fondò a Bilbao l’asilo della Sacra Famiglia, per assistere donne e fanciulli che arrivavano in città senza assistenza. Ma la sua principale opera fu la fondazione dell’Istituto chiamato ”Religiose degli Angeli Custodi”, per la preservazione delle giovani abbandonate o pericolanti, che ricevé l’approvazione diocesana l’11 marzo 1901 e qualche anno dopo quella definitiva della Santa Sede.

Raffaela Ybarra vedova Valallonga, morì santamente a 57 anni, nella sua casa di Bilbao, il 23 febbraio 1900. Nel leggere le notizie che la riguardano sembra di andar indietro nel tempo, quando sante donne per lo più nobili, pur rimanendo a vivere nel mondo e nella loro famiglia, si facevano obbligo di fondare monasteri che poi sostenevano, magari con l’intento di chiudere i loro giorni, nella pace di questi conventi.

E’ stata beatificata da papa Giovanni Paolo II il 30 settembre 1984.

Autore: Antonio Borrelli

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92377/92377C.JPG24 FEBBRAIO

Sant'Etelberto Re del Kent

 552 circa – 24 febbraio 616

Gregorio Magno e Agostino di Canterbury vengono ricordati come gli apostoli degli Angli. Al loro fianco bisogna ricordare anche Etelberto e sua moglie Berta. Nato verso il 552, Etelberto ancora in giovane età divenne il più potente sovrano anglo dell’epoca. Verso il 588 sposò Berta, la figlia cattolica del re franco Cariberto. Dando prova di tolleranza, permise alla sua sposa di continuare a professare la sua fede. Ancora più magnanimo egli si mostrò nel 597 quando accolse la delegazione di monaci inviata da papa Gregorio e guidata da Agostino. Egli ascoltò i missionari e concesse loro di stabilirsi presso Canterbury con facoltà di predicare e convertire. Lo stesso Etelberto ricevette il battesimo nel giorno di Pentecoste del 597. Saggio e prudente, non costrinse i sudditi a seguire la sua scelta, ma certo favorì quanti si facevano battezzare. La svolta favorevole al cristianesimo venne consolidata dalla costruzione, non lontano da Canterbury, di un monastero dedicato ai santi Pietro e Paolo. Inoltre il re concesse ad Agostino dei terreni per edificare la sede episcopale di Canterbury e lo sostenne nell’organizzazione di un sinodo cui parteciparono vescovi e dottori dalla vicina regione dei Britanni. Nel 601 arrivò in Inghilterra una nuova spedizione di monaci. Tra di loro vi erano Paolino, Mellito e Giusto. Con l’aiuto di Etelberto, diverranno vescovi rispettivamente di York, Londra e Rochester.   Favorevole al cristianesimo, Etelberto rimase un sovrano saggio ed equilibrato che procurò benefici a tutta la sua nazione. Morì il 24 febbraio del 616 dopo un regno di più di 50 anni e venne sepolto accanto alla moglie Berta, anch’ella venerata come santa.

Emblema: Corona, Scettro

Martirologio Romano: A Canterbury in Inghilterra, sant’Etelberto, re del Kent, che il vescovo sant’Agostino convertì, primo tra i principi inglesi, alla fede di Cristo.

Etelberto nacque all’incirca nel 552 e, incoronato re del Kent, ebbe il primato di essere il primo sovrano anglosassone a convertirsi al cristianesimo. Egli fu il terzo “bretwalda”, cioè capo supremo, d’Inghilterra e i territori sottoposti alla sua giurisdizione comprendevano tutta l’Inghilterra a sud del fiume Humber. Non oltre il 588 il re Etelberto si sposò con la principessa Berta, figlia del re francese Cariberto. La condizione posta per la celebrazione del matrimonio fu che alla sposa venisse concessa la libertà di continuare a professare la religione cristiana e potesse essere accompagnata dal vescovo di Letardo, suo cappellano. Fu poi certamente quest’ultimo ad influire sulla conversione del nuovo marito. Nel 597 il pontefice San Gregorio Magno inviò dei missionari, capeggiati dal celebre Agostino di Canterbury, per una più efficace evangelizzazione dei popoli anglosassoni. La spedizione ebbe come prima tappa l’isola di Tanatos ed i missionari contattarono il re per spiegargli le loro intenzioni. Le accurate cronache di Beda il Venerabile ci ricordano come “dopo alcuni giorni il re si recò nell’isola e, fermatosi all’aperto, ordinò ad http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92377/92377.JPGAgostino ed ai suoi compagni di recarsi a colloqui da lui. Temeva infatti, a causa di un’antica  superstizione, che entrando con loro in luogo chiuso essi lo avrebbero potuto ingannare per mezzo di arti magiche. I monaci si accostarono allora a lui con una croce d’argento e “predicarono la parola di vita al re ed a tutti quelli che erano con lui”. Sempre animato da un estrema prudenza, Etelberto rispose loro: “Sono bellissimi i discorsi e le promesse che fate, ma poiché sono cose nuove e incerte non posso dare il mio assenso ed abbandonare tutto ciò in cui ho creduto per tanto tempo con tutto il mio popolo”. Apprezzando però il lungo viaggio da essi compiuto e la buona volontà dimostrata, il re accordò loro un sistemazione adeguata presso Canterbury e la facoltà di predicare e convertire chi lo avesse desiderato.

Con la conversione del re Etelberto, tradizionalmente collocata alla vigilia di Pentecoste dell’anno 597 circa, aumentarono concessioni e favori di ogni genere nei confronti dei missionari. E’ comunque da specificare che il sovrano, pur lieto del numero sempre crescente di conversioni, preferì non imporre mai ai suoi sudditi l’adesione al cristianesimo.

Nel 601 lo stesso papa Gregorio Magno, inviandogli fra l’altro alcuni doni, volle proporgli direttamente in una lettera alcuni punti sui quali avrebbe potuto lavorare: “Affrettati ad estendere la fede cristiana ai popoli a te sottomessi, moltiplica il tuo lodevole zelo per la loro conversione, perseguita il culto degli idoli, abbattine gli edifici di culto, edifica i costumi dei sudditicon la tua grande purezza di vita […] e quanto più avrai purificato dai loro peccati i tuoi sudditi, tanto meno avrai da temere a causa dei tuoi peccati davanti al terribile esame di Dio onnipotente”.

Fuori delle mura di Canterbury, Etelberto fece dunque edificare un nuovo monastero dedicato ai santi Pietro e Paolo, che in seguito fu intitolato a Sant’Agostino di Canterbury. Proprio a quest’ultimo il re donò dei terreni per la sua nuova sede episcopale sempre nella medesima città e lo aiutò nell’organizzazione di un sinodo a cui parteciparono anche “i vescovi ed i dottori della vicina regione dei britanni”. Etelberto non mancò inoltre di esercitare una certa influenza sulla conversione di Saberto, re dei Sassoni Orientali, che da lui dipendeva in quanto “bretwalda”. Capitale di tale regno era Londra ed anche qui il sovrano del Kent fondò la primitiva St. Paul’s Cathedral, nominando San Mellito primo vescovo della città. Si adoperò inoltre per l’istituzione di un’altra nuova sede episcopale preso Rochester. Primo vescovo del Kent fu invece designato un certo Giusto. Non mancarono comunque mai da parte del santo sovrano aiuti e sostegni di vario genere per le tre diocesi da lui fondate: Canterbury, London e Rochester. MA oltre alla politica filo-ecclesiastica, non bisogna dimenticare che Etelberto procurò alla sua nazione benefici secolari, dotandola del suo primo codice legislativo, basato principalmente sulla legge salica di Clodoveo, il primo re dei franchi convertitosi al cristianesimo.

Rimasto nel frattempo vedovo, il re Etelberto morì il 24 febbraio 616, dopo un regno durato cinquantasei anni. Ricevette degna sepoltura accanto a sua moglie, anch’essa oggi venerata come santa, nella cappella di San Martino del monastero dei Santi Pietro e Paolo in Canterbury. Fino alla Riforma Protestante dinnanzi alla loro tomba fu sempre presente una candela accesa, nonostante la mancata ufficializzazione del culto, che fino al Medioevo rimase limitato a Canterbury. Oggi Sant’Etelberto del Kent è invece ricordato dal Martyrologium Romanum nell’anniversario della sua morte. La vicenda dei Santi Etelberto e Berta del Kent è paragonabile a quella di un’altra coppia reale europea, i Santi Mirian III e Nana, sovrani della lontana Georgia, che accolsero e sostennero l’attività missionaria di Santa Nino e si meritarono giustamente dalle Chiese orientali l’appellativo di “Isapostoli”, cioè “Uguali agli Apostoli”. Proprio questa fu la funzione principale che ebbero anche i sovrani del Kent nei confronti di Sant’Agostino di Canterbury, che grazie al loro sostegno poté avviare decisamente la cristianizzazione dell’Inghilterra.

Autore: Fabio Arduino

 

Beato Josef Mayr-Nusser Padre di famiglia, martire

Risultati immagini per Mayr-NusserBolzano, 27 dicembre 1910 – Erlangen, Germania, 24 febbraio 1945

 

Josef Mayr-Nusser, nato il 27 dicembre 1910 a Bolzano, sviluppò una grande attenzione verso i più poveri sin dalla prima giovinezza, diventando membro delle Conferenze di San Vincenzo. Accrebbe la sua formazione leggendo in autonomia grandi autori spirituali e aderì all’Azione Cattolica proprio mentre l’associazione era apertamente osteggiata dal regime fascista. Di fronte alla questione delle “opzioni” dell’Alto Adige, invitò i suoi conterranei a rimanere e aderì al movimento di resistenza intitolato all’eroe Andreas Hofer. Si sposò il 26 maggio 1942 con Hildegard Staub, una sua collega di lavoro alle manifatture Eccel, che l’anno dopo gli diede un figlio, Albert. Arruolato a forza nell’esercito nazista, sopportò l’indottrinamento e le esercitazioni militari, finché, la mattina del 4 ottobre 1944, non dichiarò apertamente che non intendeva giurare fedeltà a Hitler, per non sostituire il culto dovuto solo a Dio con quello della personalità del capo politico tedesco. Avrebbe dovuto essere trasferito al campo di Dachau, ma morì lungo il tragitto, il 24 Risultati immagini per Mayr-Nusserfebbraio 1945, a causa della dissenteria e delle privazioni. La diocesi di Bolzano-Bressanone ha seguito la sua causa dal 24 febbraio 2006 al 19 marzo 2007. L’8 luglio 2016 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui Josef Mayr-Nusser veniva ufficialmente dichiarato martire. È stato beatificato il 18 marzo 2017 nel Duomo di Bolzano. La sua memoria liturgica cade il 3 ottobre, il giorno prima dell’anniversario del giorno in cui lui scelse di obbedire a Cristo, ma non a Hitler. I suoi resti mortali, traslati a ridosso della beatificazione nel duomo di Bolzano, sono stati collocati presso l’altare di san Floriano.

 

A Pepi piacciono le stelle, si incanta a fissare il cielo e da grande vorrebbe fare l’astronomo: deve accontentarsi invece di un diploma di scuola commerciale e adattarsi a fare il cassiere in un paio di aziende di Bolzano.

Nato nel 1910 in una famiglia di viticoltori, ha lo sport nel sangue, ama il pattinaggio, legge con avidità libri impegnati, coltiva una intensa vita spirituale. Gli piace Tommaso Moro, l’inflessibile cancelliere che quattro secoli, pur di non perdere la sua fede, si oppone al re d’Inghilterra, che lo fa decapitare. Travolgente e vulcanico trascinatore di giovani, ne cura la formazione umana e spirituale, dicendo che «dare testimonianza oggi è la nostra unica arma efficace», perché sull’Europa si stanno addensando i cupi nuvoloni del nazionalsocialismo e «intorno a noi c'è il buio della miscredenza, dell'indifferenza, del disprezzo e forse della persecuzione».

Naturale che ad un giovane così si offra la presidenza della Gioventù Cattolica Sudtirolese, che in quegli anni si sta organizzando, sapendo di metterla in buone mani; altrettanto naturale che, così facendo, si esponga troppo e finisca per essere attenzionato dalle autorità, che si convincono di avere in lui un pericoloso formatore di coscienze e un temutissimo testimone. Non sfuggono, ad esempio, queste sue parole del 1936, quasi premonitrici della sua scelta futura: «Oggi, più che in qualsiasi altro tempo, si esige nell’Azione Cattolica un cattolicesimo vissuto. Oggi, si deve mostrare alle masse che l’unico capo che solo ha diritto ad una completa, illimitata autorità e ad essere il nostro “condottiero” è Cristo».

Si innamora, esattamente come gli altri, quando conosce Hildegard, che lavora nella sua stessa ditta: c’è un’affinità evidente tra i due e una gran condivisione di ideali. Le fa una corte spietata e tenace fino a quando lei, che sta pensando seriamente di farsi suora, gli dice di sì. Convinto che nel matrimonio ci sia spazio sufficiente per testimoniare la propria fede e aspirare alla santità, la sposa il 26 maggio 1942 e l’anno successivo sono rallegrati dalla nascita di Albert.

Fidanzamento e matrimonio non lo distolgono dalla sua multiforme attività sociale e religiosa, anche in conseguenza della quale viene arruolato a forza nelle divisioni dell'esercito nazista e condotto a Konitz per l'addestramento. Insieme all’indottrinamento ed alle esercitazioni militari che dovrebbero fare di lui una perfetta SS, lo preparano anche al giuramento, insegnandogli la formula: «Giuro a Te, Adolf Hitler, Führer e cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a Te e ai superiori designati da Te obbedienza fino alla morte. E che Dio mi assista». Ed è qui che va in crisi la fede di Pepi, al quale sembra blasfemo coinvolgere il Dio in cui crede nel culto del capo innalzato a idolo.

«Ci tocca oggi assistere a un culto del leader (Führer) che rasenta l'idolatria», scriveva nel 1936; «non posso giurare a questo Führer» dice a voce alta la mattina del 4 ottobre 1944, aggiungendo di non sentirsi nazionalsocialista per motivi religiosi. Ai commilitoni, che lo invitano a ritrattare, risponde senza enfasi, ma con profonda convinzione, che «se nessuno avrà mai il coraggio di dire no ad Hitler, il nazionalsocialismo non finirà mai». Una scelta, la sua, maturata nei lunghi colloqui con il fratello don Jakob e con la moglie, alla quale scrive: «Prega per me, affinché nell'ora della prova io possa agire senza esitazioni secondo i dettami di Dio e della mia coscienza (…) tu sei una donna coraggiosa e nemmeno i Risultati immagini per Mayr-Nussersacrifici personali che forse ti saranno chiesti potranno indurti a condannare tuo marito perché ha preferito perdere la vita piuttosto che abbandonare la via del dovere».

Subito incarcerato e processato, viene condannato a morte come “disfattista”. Caricato su un treno a inizio febbraio 1945, insieme ad altri 40 obiettori, con destinazione Dachau, il convoglio si ferma ad Erlangen perché la linea ferroviaria è stata bombardata: Pepi sta male, ha la febbre, la dissenteria lo sta uccidendo. Per iniziativa di una delle guardie (un ex seminarista) si affronta un viaggio a piedi di tre ore per farlo visitare da un medico nazista, che lo rimanda indietro: «Niente di grave, può riprendere il viaggio».

Tornato sul treno, muore quella stessa notte. «Per broncopolmonite», dirà il telegramma che oltre un mese dopo, arriverà a casa sua; «Per Cristo e per la fede», dice la Chiesa, che ha ufficialmente sancito quest’affermazione dopo un lungo processo.

Autore: Gianpiero Pettiti

 

Il contesto storico

La dittatura nazista fu terribile per la paura che incuteva, nefasta per le sue leggi segregazioniste e razziali, sciagurata per la violenza che usò e per le guerre arrecate al mondo, orribile per i crimini contro l’umanità di cui si macchiò, tanto più perpetrati nella civile Europa.

E se, per i più svariati motivi, il popolo tedesco e quelli dei Paesi orbitanti intorno al III Reich furono accondiscendenti, se non collaboranti di questa ventata di dittatura nazionalistica, non pertanto ci furono anche fra i loro cittadini figure esemplari, che con atto di eroismo cosciente, dissentirono dalla politica imposta da Adolf Hitler e dai suoi gerarchi.

Alcuni, che pagarono con la vita la loro opposizione, sono stati beatificati e canonizzati, oppure hanno in corso la causa per la loro beatificazione, ovviamente se cattolici. Per i laici la cosa è stata più difficile, sperduti nella gran massa di detenuti, prigionieri, deportati, perseguitati, che languirono e morirono nei campi di sterminio, o ancora prima di arrivarci. Tra di essi, Josef Mayr-Nusser.

Nascita e famiglia

Nacque il 27 dicembre 1910 a Bolzano, in un maso (tipica abitazione di campagna) di media grandezza situato ai Piani di Bolzano, vicino al fiume Isarco. La famiglia non era benestante: il padre faceva il viticoltore, ma non le fece mancare mai il necessario. Morì in guerra nel 1915, lasciando la moglie e sette figli.

Josef, o Pepi come lo chiamavano in casa, era il terzogenito. Crebbe nel sano ambiente del maso Nusser, imparando a condividere il pane con chi non aveva nulla: la porta della tenuta era sempre aperta per i bisognosi, che non andavano mai via privi del necessario.

Nelle Conferenze di San Vincenzo

Non fu solo spettatore della grande povertà esistente al suo tempo, nel quartiere dove era nato e cresciuto. Affascinato dalla figura e opera del beato Federico Ozanam, fondatore delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, a soli 22 anni divenne confratello della Conferenza di Bolzano/Centro e poi di quella del quartiere Piani, fondata nel 1937, della quale divenne presidente.

Sebbene così giovane, era dotato di particolare sensibilità verso i poveri. In una lettera del 1940 scriveva agli altri soci: «Quando il confratello della San Vincenzo si accinge a visitare una famiglia di poveri, dovrebbe a tutti i costi organizzarsi il tempo in modo da poter dedicare almeno dai dieci ai quindici minuti alla visita. […] Nel nostro atteggiamento non ci deve essere traccia di fredda condiscendenza, perché in Risultati immagini per Mayr-Nussertal modo feriremmo i nostri assistiti. Dobbiamo evitare ogni forma di paternalismo. Non esprimiamo al povero la nostra compassione con frasi fatte; quello che diciamo deve venire dal nostro cuore, solo così potrà trovare la strada al cuore dell’altro».

Impiegato e autodidatta

La sua giornata, fatta anche di preghiera, iniziava con la partecipazione alla Messa delle 6.30. Il padre, come già detto, era morto in guerra, mentre il fratello più grande, Jakob, era in seminario. Josef, quindi, si poté permettere solo la scuola commerciale, che gli diede l’opportunità di trovare un lavoro come impiegato presso le manifatture Eccel, una ditta tessile, come cassiere.

Continuò da solo ad arricchire la sua cultura leggendo assiduamente, dalla Sacra Scrittura a San Tommaso d’Aquino. Con particolare passione si dedicò alle lettere scritte in carcere da san Tommaso Moro, il Cancelliere di re Enrico VIII, che si oppose al divorzio del re e al suo ruolo di capo della Chiesa d’Inghilterra, finendo decapitato. S’interessò molto anche al movimento liturgico, incoraggiando i giovani alla partecipazione attiva alla Messa tramite l’uso del messalino bilingue.

Socio di Azione Cattolica in tempi difficili

Nel 1936 accettò l’invito di papa Pio XI sul coinvolgimento dei laici nell’impegno ecclesiale ed entrò nel gruppo giovanile dell’Azione Cattolica avviato da don Friedrich Pfister. Non erano tempi facili per l’Azione Cattolica: pur essendo stata riconosciuta nel Concordato del 1929, era fortemente e spesso violentemente osteggiata dal regime fascista. A Bolzano la situazione era ancora più preoccupante: le riunioni dei giovani si tenevano in un convento di Lana, al riparo da occhi indiscreti. Quando il gruppo si fu ben formato, Josef, il più assiduo e motivato, venne eletto presidente.

Attento agli eventi di quel periodo irrequieto, foriero di ulteriori sconvolgimenti, si preoccupò di dare ai suoi giovani indicazioni di comportamento come cristiani, come in un discorso pronunciato il giorno di Pentecoste del 1936 (nell’originale, la parola “leader” è “Führer”):

«Vediamo oggi con quanto entusiasmo, anzi spesso con una dedizione cieca, passionale e incondizionata le masse si votano ai leader. Ci tocca oggi assistere a un culto del leader che rasenta l’idolatria. Tanto più può stupirci questa cieca fiducia nei leader se consideriamo che viviamo in un’epoca piena delle più straordinarie realizzazioni dello spirito umano in tutti i campi della scienza e della tecnica, in un’epoca piena di scetticismo in cui il singolo non vale niente, solo la massa, il grande numero.

Oggi si tratta di indicare di nuovo alle masse la guida che sola ha il diritto al dominio e alla leadership illimitata, Cristo».

Dopo aver ripulito e addobbato la chiesa abbandonata di san Giovanni in Villa, nel centro storico di Bolzano, i giovani di Azione Cattolica presero a riunirsi e pregare in questo luogo, guidati dall’assistente diocesano per la parte italiana, don Josef Ferrari, e maturarono le loro scelte di cristiani.

In quel tempo di sofferti interrogativi sul futuro, Josef suggeriva: «Dare testimonianza è oggi la nostra unica arma efficace. […] Dobbiamo essere testimoni! Proviamo, prima di diventare apostoli della parola, a essere dei giovani cristiani e a esserlo totalmente. Lo diventiamo presso la sacra fonte dell’altare. Su di esso vi è la Parola e il Corpo di Cristo. All’interno di esso vi sono le spoglie di coloro che sono stati fedeli fino alla morte».

Matrimonio e impegno politico

Si innamorò di una sua collega di lavoro, Hildegard Staub, con la quale si trovava in sintonia di idee e impegni: era il suo primo amore, profondo e autentico. Si sposarono il 26 maggio 1942 e l’anno successivo nacque il frutto del loro amore, Albert.

Immagine correlataIntanto in Alto Adige la situazione si fece difficile. Molte attività si dovevano svolgere in segreto, perché il regime fascista aveva proibito ai tirolesi di parlare la loro lingua e coltivare le loro tradizioni, per integrarli completamente nella società italiana.

Con l’accordo del 1939 fra Mussolini e Hitler sulle “Opzioni” la situazione precipitò: chi voleva mantenere la propria identità tedesca poteva trasferirsi in Germania e chi restava invece doveva adeguarsi.

Tra convinzioni o minacce, l’80% della popolazione decise di andarsene. Josef non solo volle rimanere, ma, con la collaborazione dei circoli cattolici di Bolzano e della maggioranza del clero locale, cercò di convincere la gente a non partire, in completo disaccordo con il vescovo di Bressanone, monsignor Geisler, che optò per la Germania.

I motivi per restare erano le notizie che giungevano dal Reich, per niente confortanti, insieme all’aperta persecuzione anticristiana da parte di Hitler. Tuttavia, la vita non era ugualmente facile per i “Dableiber” (gli altoatesini di lingua tedesca rimasti in Italia), a causa delle repressioni e delle limitazioni che dovevano soffrire. Erano sostenuti solo dal movimento di resistenza “Andreas Hofer-Bund” al quale Josef aderì, offrendo anche una pertinenza del suo maso per gli incontri.

Arruolato a forza nelle SS

Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, in Alto Adige presero a comandare i tedeschi. Nel successivo settembre 1944, quando ormai tutto stava per crollare, il Führer, nell’intento di difendere fino all’ultimo il suo regime, ordinò di arruolare quanti più uomini possibile.

Così Josef, insieme a tanti altri Dableiber, si trovò arruolato nelle file delle Schutz-Staffeln o SS, votate anima e corpo al Führer e ai suoi progetti. Il 7 settembre i giovani vennero stipati in tre vagoni alla stazione ferroviaria di Bolzano: dopo un viaggio estenuante di quattro giorni, giunsero a Konitz in Germania (oggi Chojnice in Polonia), dove furono sottoposti a un addestramento mirato al combattimento e all’indottrinamento politico.

Non giurò a Hitler

Il 4 ottobre 1944 le reclute furono schierate nel piazzale dell’ex manicomio cittadino, adibito a caserma, per prestare il giuramento che le impegnava totalmente alla causa di Adolf Hitler. Il sergente ripeté l’ennesima lezione di propaganda, ma a un certo punto la recluta Mayr-Nusser chiese di parlare: di fronte a tutti, dichiarò di non poter prestare giuramento.

Il sergente, sbalordito, mandò a chiamare il comandante della compagnia, che domandò al giovane il perché di quell’affermazione: motivi religiosi, ribatté l’altro. Il comandante, allora, gli ordinò di mettere per iscritto la sua dichiarazione: fra lo stupore di alcuni e la rabbia di altri, Josef firmò quella che doveva essere la sua condanna a morte.

Prima di consegnarla, venne raggiunto dal commilitone Franz Treibenreif (al quale si deve la testimonianza che racconta l’accaduto), che gli sussurrò: «Non credo che il Signore ci chieda questo». La sua lucida risposta fu: «Se mai nessuno trova il coraggio di dire loro che non è d’accordo con le loro idee nazionalsocialiste, le cose non cambieranno mai».

L’arresto e la morte

Verso le 6 di sera, dopo un addestramento speciale che comportava stendersi, rialzarsi e strisciare nel fango, Josef venne messo agli arresti. Il 14 novembre 1944 fu trasferito a Danzica, sede del tribunale militare. Il 5 dicembre scrisse, per l’ultima volta, alla moglie: «Non posso ancora dirti quando si deciderà la mia sorte e ti prego di pazientare. Dio, il Padre che pieno d’amore veglia su di noi sempre e ovunque, non ci abbandonerà».

Da quel giorno, a Hildegard non arrivarono più notizie del marito, fino al 5 aprile 1945: una comunicazione del lazzaretto di Erlangen, giunta a Renon, dove la sua famiglia era sfollata, riferì che Josef era morto di broncopolmonite il 24 febbraio 1945, su un treno in sosta proveniente da Buchenwald e diretto a Dachau.

 

Risultati immagini per Mayr-NusserI suoi ultimi giorni nel racconto di un testimone diretto

Trentacinque anni dopo, un’ex guardia carceraria delle SS, l’austriaco Fritz Habicher, vedendo in televisione un documentario su Josef, lo riconobbe. Scrisse quindi una lettera alla vedova Hildegard: raccontò come il detenuto fosse sempre disponibile a donare un sorriso e una parola di speranza, pur stremato dalla fame e dalla dissenteria, mentre le sue forze si andavano man mano spegnendo.

Il treno aveva dovuto fermarsi a Erlangen a causa di un’interruzione della linea ferroviaria, quindi i soldati avevano ottenuto, a fatica, il permesso di portarlo in ospedale. Il tragitto compiuto a piedi fu fatale per Josef, il quale, tuttavia, continuava a ringraziare chi stava cercando di aiutarlo. Il medico, tuttavia, lo rimandò indietro.

La sua morte avvenne la mattina successiva: il suo ultimo gesto di carità era stato passare il cibo a chi, degli altri prigionieri, era più affamato di lui. Tra i suoi effetti personali furono trovati un Vangelo, un messalino e una corona del Rosario.

Habicher concluse la testimonianza con queste parole: «Josef Mayr-Nusser è morto per Cristo, ne sono certo, anche se me ne sono reso conto solo 34 anni dopo… Anche se non è molto che le posso raccontare, sono comunque convinto che ho vissuto quattordici giorni insieme ad un santo, che oggi è il mio più grande intercessore presso Dio».

La causa di beatificazione

La sua vicenda terrena per molti anni ha diviso i tirolesi, perché chi aveva giurato fedeltà a Hitler, convinto di servire la patria, lo aveva considerato un traditore. Con l’apertura del processo di beatificazione, si è cercato di leggere tutto con una luce diversa.

La diocesi di competenza per l’istruzione del processo avrebbe dovuto essere quella di Bamberga, nel territorio della quale Josef morì, ma il 23 febbraio 1991 è stato operato il trasferimento al tribunale ecclesiastico della diocesi di Bolzano-Bressanone. Ottenuto il nulla osta da parte della Santa Sede il 30 settembre 2005, è stata aperta la fase diocesana il 24 febbraio 2006, conclusa poi il 19 marzo 2007 e convalidata il 23 aprile 2010. La riunione dei periti storici, l’11 novembre 2014, ha trattato le questioni aperte sul suo conto.

Il riconoscimento del martirio e la beatificazione

L’8 luglio 2016, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui Josef Mayr-Nusser veniva ufficialmente dichiarato martire.

La sua beatificazione è stata celebrata alle 10 del 18 marzo 2017 nel Duomo di Bolzano, presieduta dal cardinal Amato come delegato del Santo Padre. La sua memoria liturgica, per la diocesi di Bolzano-Bressanone, è stata fissata al 3 ottobre, alla vigilia dell’anniversario del giorno in cui lui scelse di obbedire non a Hitler, ma all’unico e vero Signore.

I suoi resti mortali furono inizialmente sepolti a Erlangen, poi riportati in Alto Adige nel 1958. Nel 1963 furono collocati nelle mura esterne della chiesa parrocchiale di San Giuseppe a Stella di Renon, paese dove il Beato e sua moglie avevano una villa estiva. In seguito alla beatificazione, sono stati definitivamente collocati nel Duomo di Trento; più precisamente, presso l’altare laterale nella parte meridionale (altare di san Floriano).

Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini

Note: Sito ufficiale: www.josef-mayr-nusser.it/it

 

 

25 FEBBRAIO

Beato Sebastiano dell’Apparizione Francescano

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/92675/92675.JPG Per il Beato Sebastiano forse considerarlo "sposo" è una forzatura, anche se sposò due volte...

1502 – 1600

Martirologio Romano: A Puebla de los Ángeles in Messico, beato Sebastiano Aparicio, che, guardiano di pecore, emigrò dalla Spagna in Messico, dove beneficò i poveri con i molti beni che aveva accumulato con il suo lavoro; rimasto, poi, due volte vedovo, fu accolto come fratello laico nell’Ordine dei Frati Minori e morì quasi centenario.

Durante il secolo d'oro della sua spiritualità e della sua letteratura, la Spagna fu anche edificata da quattro santi fratelli laici appartenenti all'Ordine Francescano dei Frati Minori: San Pasquale Baylón (1540-1592), il Beato Andrea Hibernon (1534-1602), il Beato Giuliano di Sant'Agostino (1553-1606) ed il Beato Sebastiano dell'Apparizione (1502-1600). Quest'ultimo, commemorato in data odierna dal Martyrologium Romanum, spartì in realtà la sua lunga vita tra due continenti. Umile contadino della provincia spagnola della Galizia, proveniva da una povera famiglia e trascorse la sua fanciullezza pascolando greggi. All'età di quindici anni i suoi genitori preferirono mandarlo nella più prosperosa Castiglia al servizio di una vedova, che pare tentò di sedurlo. Sebastiano allora fuggì, trovando una nuova occupazione quale cameriere personale di un facoltoso gentiluomo di Salamanca. Tuttavia il suo cuore era a tal punto legato alla vita campestre, che l'anno seguente preferì tornare a casa per pascolare le pecore. Dopo otto anni di lavoro aveva già accumulato una cospicua fortuna, tanto da finanziare la dote delle sorelle. Sebbene le sue agiate condizioni finanziarie lo avessero reso un ottimo partito, Sebastiano abbandonò la prospettiva matrimoniale per salpare alla volta dell'America.

Giunse così in Messico e si stabilì a Puebla degli Angeli. Iniziò l'attività di bracciante agricolo, ma la sua spiccata imprenditorialità gli consentì di mettersi in proprio ed effettuare trasporti vari tra Zacatecas e Città del Messico. Notando la forte necessità di vie di comunicazione più agevoli, non esitò a provvedere personalmente alla loro realizzazione, arricchendosi così ulteriormente. Tra le principali strade da lui inaugurate si ricorda quella tra le due città suddette, tuttora attiva. Nonostante l'agiatezza raggiunta, Sebastiano preferì uno stila di vita austero, destinando piuttosto le proprie ricchezze ad opere di carità ed a prestiti senza interessi. La sua ottima reputazione crebbe sia tra gli ispanici che tra gli indigeni ed era cosa frequente che si ricorresse a lui per risolvere le più svariate controversie. Ritiratosi dagli affari nel 1552, Sebastiano comperò allora una tenuta agricola vicino a Città del Messico, ove si dedicò all'allevamento del bestiame.

All'età di ben sessant'anni pensò finalmente di sposarsi, ormai conscio di non rischiare di cedere alle tentazioni della carne. La prima moglie, una povera ragazza la cui famiglia lo aveva supplicato di sposarla, morì dopo breve tempo, e così avvenne anche con la seconda. Entrambi i matrimoni, con mutuo consenso, non vennero consumati.

A settantadue anni fu colpito da una grave malattia, ma ripresosi inaspettatamente, non gli restò che interpretare la sua guarigione come una grazia divina meritevole di essere contraccambiata. Donò allora tutti i suoi beni alle clarisse e, fattosi terziario francescano, entrò nel noviziato dei francescani osservanti di Città del Messico. Successivamente fu mandato a Tecali ed in un secondo momento a Puebla, ove era presente una grande comunità. Il fervore, l'umiltà e l'obbedienza, che lo animarono abitualmente nonostante la sua età ormai avanzata, furono esemplari per tutti i suoi confratelli. Visse così gli ultimi ventisei anni della sua vita peregrinando per le campagne su un carro trainato dai buoi e chiedendo l'elemosina. Similmente alle leggende sorte sul conto di San Francesco d'Assisi, anche il beato Sebastiano godette di poteri miracolosi nei confronti degli animali, che ubbidivano ad ogni suo minimo cenno. Si narra inoltre che gli angeli lo accompagnassero abitualmente nei suoi viaggi.

Morì quasi centenario il 25 febbraio 1600, compianto dall'affetto generale. La fama di santità da cui era circondato, portò alla sua beatificazione il 17 maggio 1789 da parte del pontefice Pio VI. Il corpo del Beato Sebastiano dell'Apparizione è ancora oggi conservato in una tomba di vetro, adiacente alla chiesa francescana di Puebla.

Autore: Fabio Arduino

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/91764/91764.JPGBeata Cecilia Domenicana

 XV-XVI secolo

Nelle Vite del Razzi, unica fonte da cui dipendono tutti gli altri biografi, si trovano le seguenti notizie: dopo otto anni di matrimonio, d'accordo col marito, che si fece domenicano, Cecilia entrò nel monastero ferrarese delle Domenicane di S. Caterina martire, dove trascorse trent'anni di vita ascetica. Fu tre volte priora, amata dalle suore per la sua «humanità, modestia et prudenza». Morì poco dopo una celeste visione avuta nel Natale 1511. «Dopo la sua morte seguirono alcuni miracoli i quali per brevità si lasciano»; la commemorazione ricorre il 25 febbraio.

Autore: Dante Balboni      Fonte: Enciclopedia dei Santi         

 

26 FEBBRAIO

 

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/43060/43060B.JPG27 FEBBRAIO

Sant'Anna Line Martire

 + Londra, Inghilterra, 27 febbraio 1601

Canonizzata il 25 ottobre 1970 da Papa Paolo VI.

Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, sant’Anna Line, vedova e martire, che, morto il marito in esilio per la fede cattolica, procurò in questa città una casa ai sacerdoti e per questo, sotto la regina Elisabetta I, a Tyburn fu impiccata. Insieme a lei patirono anche i beati sacerdoti e martiri Marco Barkworth, dell’Ordine di San Benedetto, e Ruggero Filcock, della Compagnia di Gesù, dilaniati con la spada mentre erano ancora vivi.

Seconda figlia di Guglielmo (o Giovanni) Heigham e di Anna Alien, Anna nacque a Dunmow, nella contea di Essex. Convertitasi al cattolicesimo insieme col fratello Guglielmo, fu con questo diseredata e scacciata di casa dal padre, fiero calvinista, che inutilmente aveva anche tentato di farla apostatare. Poco dopo Anna sposò Ruggero Line, anche egli cattolico convertito, che per la fede aveva subito la stessa sorte della moglie. Ma ben presto rimase sola e senza risorse perché il marito, arre-stato nel 1586, mentre stava ascoltando la s. Messa, e condannato all'ergastolo, mutato poi in esilio perpetuo, andò a stabilirsi nelle Fiandre, dove visse ancora otto anni poveramente, percependo una piccola pensione concessagli dal re di Spagna e di cui inviava parte alla moglie a Londra.

Rimasta vedova nel 1594 e molto malandata in salute, Anna più che mai si trovò afflitta dal bisogno, dovendo fidare unicamente nella divina Provvidenza per il suo sostentamento.

Quando nel 1595 il gesuita Giovanni Gerard istituì in Londra una casa di ricovero per i sacerdoti che giungevano nuovi nella città, o che già vi esercitavano il ministero, Anna fu chiamata a governarla ed amministrarla, mansioni queste che ella svolse giorno per giorno con l'affetto di una madre e la devozione di un'ancella, finché cadde in sospetto dei persecutori, specie dopo la fuga del Gerard dalle prigioni della Torre nel 1597. Costretta per questo a cambiare residenza, andò ad abitare in una casa molto appartata, dove nondimeno, per la delazione di un vicino, venne catturata il 2 febbraio 1601 da un manipolo di armati e rinchiusa nelle prigioni di Newgate. Trascinata poco dopo in tribunale, dove fu necessario condurla su una sedia, talmente gravi erano le sue condizioni di salute, venne processata dal giudice Popham, sotto l'imputazione di aver dato rifugio ed assistenza ai preti missionari. Dichiarata colpevole del reato ascrittole da una giuria compiacente, fu condannata alla pena capitale, venendo giustiziata al Tyburn il 27 febb. 1601, insieme con il gesuita Ruggero Filcock, suo confessore ed amico, e col benedettino Marco Barkworth. Prima di porgere la testa al capestro, dichiarò ad alta voce rivolta alla folla circostante: «Sono stata condannata per aver concesso ospitalità ad un prete cattolico; eppure sono così lontana dal pentirmene che vorrei di tutto cuore averne ospitato un migliaio, invece di uno solo». Innalzata da Pio XI all'onore degli altari, il 15 dic. 1929 (cf. ASS, XXII [1930], p. 15, n. LXXXIII), la beata Anna viene commemorata il 27 febbraio.

Autore: Niccolò Del Re

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/94397/94397.JPG28 FEBBRAIO

Beati Martiri di Unzen

 + Unzen, Giappone, 28 febbraio 1627

16 laici giapponesi della diocesi di Funai subirono il martirio presso Unzen il 28 febbraio 1627 nel contesto di feroci ondate persecutorie contro i cristiani. Del gruppo fanno parte Paolo Uchibori Sakuemon (sposato), Gaspare Kizaemon, Maria Mine (moglie del beato Gioacchino Mine Sukedayu), Gaspare Nagai Sohan (sposato), Ludovico Shinzaburo, Dionigi Saeki Zenka con suo figlio Ludovico, Damiano Ichiyata (sposato), Leone Nakajima Sokan con suo figlio Paolo, Giovanni Kisaki Kyuhachi, Giovanni Heisaku (sposato), Tommaso Uzumi Shingoro, Alessio Sugi Shohachi, Tommaso Kondo Hyoemon (sposato) e Giovanni Araki Kanshichi.

In seguito ad un rapido processo iniziato con il Nulla Osta della Santa Sede concesso in data 2 settembre 1994, è stato riconosciuto il loro martirio il 1° luglio 2007 e sono stati beatificati il 24 novembre 2008, sotto il pontificato di Papa Benedetto XVI, unitamente ad un gruppo complessivo di 188 martiri giapponesi.

 

 

http://www.santiebeati.it/immagini/Original/43300/43300B.JPG29 FEBBRAIO

Beata Antonia di Firenze madre, Badessa

 28 febbraio (negli anni bisestili: 29 febbraio)

+ 29 febbraio 1472

Nata a Firenze, giovanissima si sposò ed ebbe un figlio. Rimasta vedova, entrò nel monastero delle terziarie di s. Francesco, fondato a Firenze nel 1429 dalla beata Angelina. Fu badessa a Foligno (1430-33) e poi a L'Aquila dove, nel 1447, confortata dal consiglio di S. Giovanni da Capistrano, fondò il monastero del Corpus Domini sotto la regola prima di s. Chiara. Allora, come era avvenuto ad Assisi ai tempi di s. Chiara, molte fanciulle aquilane, per seguire Antonia che ne rispecchiava le virtù, abbandonarono il mondo. La beata morì il 29 febbraio 1472. Il suo corpo si conserva, tuttora intatto e flessibile, nel monastero di s. Chiara dell'eucarestia a L'Aquila. Pio IX approvò il culto il 17 settembre 1847.

Etimologia: Antonia = nata prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco

Martirologio Romano: All’Aquila, beata Antonia da Firenze, vedova, poi fondatrice e prima badessa del monastero del Corpo di Cristo sotto la prima regola di santa Chiara.

Antonia nacque a Firenze nel 1400. Giovane vedova, con un figlio, si oppose alla famiglia che era favorevole ad un nuovo matrimonio. Vedeva, nelle avversità della vita, un disegno singolare del Signore. Erano gli anni in cui san Bernardino da Siena, con alcuni compagni, diffondeva in molte città italiane il movimento dell'Osservanza e il ritorno di un "francescanesimo" delle origini. La maggior parte delle prediche erano fatte in piazza, le chiese non riuscivano a contenere le folle che puntualmente accorrevano. Frate Bernardino predicò in Santa Croce a Firenze dall'8 marzo al 3 maggio 1425. Antonia, ascoltandolo, rispose sì, senza condizioni, alla chiamata di Dio. Aveva conosciuto l´esperienza della vita matrimoniale, era madre, ma il Signore dava una svolta alla sua vita. Quattro anni dopo, sistemate le questioni familiari, entrò tra le terziarie francescane fondate dalla b. Angiolina da Marsciano, anch'essa giovane vedova. Il convento fiorentino di sant'Onofrio era il quinto che veniva fondato. Poco dopo la sua professione Antonia fu mandata, per il suo carisma, nel monastero più antico dell'Ordine, sorto a Foligno nel 1397. La fondatrice la trasferì in seguito ad Assisi, a Todi, poi definitivamente a L´Aquila, per fondare una nuova comunità. Era il 2 febbraio 1433. Il convento aquilano, posto sotto la protezione di s. Elisabetta, la ebbe come guida per quattordici anni, durante i quali diede tutta se stessa perché la comunità crescesse secondo i precetti del Vangelo. Nel cuore di Antonia maturava però il desiderio di una vita maggiormente contemplativa. Motivo di pena fu, per diversi anni, la vita disordinata del figlio, che aveva sperperato il patrimonio, causando litigi tra i parenti. Al movimento dell'Osservanza aderirono diverse comunità di clarisse e a L´Aquila fu san Giovanni da Capestrano a guidare la riforma. Antonia fu tra le prime che vi aderì. Il santo trovò l'edificio per il monastero, presenziando alla solenne fondazione del 16 luglio 1447. Il corteo, partendo da Collemaggio, accompagnò Antonia, eletta badessa per volontà del Capestrano, e le tredici compagne al monastero dell'Eucaristia (o del Corpus Domini). Si cominciò nelle ristrettezze più assolute, mancava anche lo stretto necessario, e Antonia non esitò a farsi questuante. La povertà era vissuta con letizia evangelica, l'esempio della Madre era forte e materno e il clima sinceramente fraterno. I frutti furono abbondanti e molte giovani chiesero di vestire l'abito e di consacrarsi al Signore. Anche per il figlio di Antonia, Battista, s. Giovanni ebbe un ruolo determinante. Il giovane vestì il saio francescano nel convento di Campli, conducendo una vita esemplare. Trascorsi sette anni, Antonia finalmente ottenne di potersi dedicare esclusivamente alla contemplazione e al silenzio. "Taceva ma la sua fama gridava", come si disse di S. Chiara. Era modesta ed obbediente, in mensa e in coro stava all'ultimo posto, indossava le vesti più logore, lasciate dalle consorelle. Alcune monache la videro rapita in estasi, con una aureola luminosa sul capo. Negli ultimi anni ebbe una piaga alla gamba che tenne nascosta. La Beata morì alle 21 del 29 febbraio 1472, vegliata con amore dalle sorelle. Alcuni miracoli si verificarono prima ancora che venisse sepolta. Una monaca si distese al suo fianco e guarì da alcune piaghe. I magistrati della città vollero sostenere le spese del funerale. Quindici giorni dopo la sepoltura, le consorelle, volendo ancora vedere le sue sembianze, la disseppellirono, trovandola come se fosse appena morta. Si diffuse la voce in città e il vescovo Agnifili ordinò che fosse sepolta in un luogo distinto. Nel 1477 il vescovo Borgio, dopo una nuova ricognizione, constatato lo stato di perfetta conservazione del corpo di Madre Antonia e, soprattutto, ben conoscendone la fama di santità, ne autorizzò il culto che fu poi confermato il 28 luglio 1848. Le clarisse di Paganica, custodi del suo corpo, sono oggi fedeli testimoni del suo carisma.

Preghiera

Padre delle Misericordie,

Tu che hai scelto la Beata Antonia,

come figlia, sorella e sposa

del Tuo Figlio Gesù Cristo

sulla via tracciata da Francesco e

Chiara d’ Assisi e l’hai colmata

dei doni del tuo Spirito

rendendola modello di povertà

e di vita evangelica per l’ardente

desiderio del Crocifisso povero,

concedi, per sua intercessione,

la semplicità, la purezza di vita

e la grazia che ti chiediamo

perché tutto di noi sia una lode

senza fine a Te che vivi e regni

nei secoli dei secoli.

Amen

Per informazioni: Monastero S. Chiara (Paganica – L'Aquila)

tel.: 0862.6899778  mail: clarissepaganica@libero.it

Autore: Daniele Bolognini